29.3.07

La Cdl e la lezione di Sarkozy


per l'Opinione del 30 marzo

Premessa. Concordo con chi ritiene che Pierferdinando Casini col suo voto a sostegno della missione in Afghanistan abbia consentito al centrosinistra di nascondere le sue laceranti divisioni interne. Assicurando a priori il suo appoggio al Governo Casini ha soffocato sul nascere ogni possibile sospiro di dissenso della parte riformista della maggioranza, e ha regalato a Prodi alcuni mesi di navigazione più o meno tranquilla. Perché l’ha fatto mi pare chiaro, e d’altra parte non lo nasconde: punta a un accordo sulla legge elettorale per sfaldare il bipolarismo “primitivo” e “conflittuale”, consentendo i partiti di centro a scegliere dopo le elezioni, se necessario, quale maggioranza formare. Un salto all’indietro di quindici anni, con la differenza che la Prima Repubblica non permetteva, per la presenza auto-escludente del Pci, alternanze di governo, ma solo nel governo. Il nuovo centro post-democristiano avrà così molta più libertà di movimento della vecchia Dc se le ambizioni di Casini si realizzeranno, ma gli elettori perderanno definitivamente la sovranità politica, già abbondantemente limata dalla quota proporzionale del “mattarellum” e dall’attuale “porcellum”. Ai liberali questo progetto non può piacere.
Ciò detto, resta da chiedersi come mai il centrodestra sia riuscito nell’impresa di trasformare un evento normale nella vita dell’opposizione parlamentare, il ritrovarsi in minoranza, in una sconfitta politica così grave da offrire il destro alla grande stampa di cantare l’elogio funebre della Casa delle libertà. In altre parole, dato per scontato che gli avversari di Berlusconi altro non aspettavano che un passo falso qualsiasi per riprendere il fuoco ad alzo zero contro la sua leadership, e lavorare a una successione più conforme ai loro interessi, perché mai il leader dell’opposizione non ha valutato le conseguenze del voto, costringendo persino il Giornale a titolare il suo editoriale “Centrodestra da reinventare”?
Hanno sbagliato Berlusconi, Fini e Bossi ad astenersi al Senato (cioè, in pratica, a votare contro)? Assolutamente no. Sono settimane che scrivo che la missione italiana ha cambiato natura negli ultimi mesi e che, come tutta la politica estera del governo Prodi-D’Alema, serve solo di copertura per una strategia che indebolisce drammaticamente l’alleanza euroatlantica guidata dagli Usa. L’errore sta nella sequenza di voti contraddittori, nell’incertezza strategica e nella mancanza di comunicazione.
Il capogruppo di FI al Senato, Renato Schifani ha motivato così l’astensione a pochi giorni dal voto favorevole alla Camera: “Vorrei esordire con una risposta a una domanda che più volte, sia il Governo che i Capigruppo della maggioranza, hanno posto a noi dell'opposizione (quantomeno a Forza Italia, AN e Lega). La domanda concerne il motivo di questo cambiamento di posizione nel giro di soli dieci giorni o due settimane. Il motivo lo abbiamo spiegato più volte: in questi dieci giorni o due settimane si sono verificati eventi che hanno mutato il quadro politico-militare della nostra missione in Afghanistan”.
Convincente? Ahimé no. In realtà non è successo nulla di nuovo in queste due settimane. Già nel settembre del 2006 al summit di Mons, nel quartier generale belga della Nato, l’Italia aveva detto no alla richiesta della Nato di inviare altre truppe in Afghanistan, vista l’offensiva talebana già in corso e quella prevista per la primavera di quest’anno, e di modificare le regole d’ingaggio di quelle presenti. Neppure a Riga, nel successivo vertice di novembre, nonostante l’aggravarsi del conflitto, la risposta di Prodi era cambiata. E, al momento della discussione alla Camera, già era pervenuta al nostro governo la “lettera aperta agli italiani” sottoscritta dagli ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Olanda e Romania, in cui si ricordavano le ragioni che avevano portato i nostri militari in Afghanistan e si chiedeva di rafforzarne la presenza. Un fatto straordinario, come notò Antonio Martino proprio nella dichiarazione di voto finale: “In sessant'anni non era mai accaduto che gli ambasciatori di sei paesi dovessero scrivere una lettera per richiamare il Governo italiano ai suoi obblighi internazionali”. E infine già era in corso il sequestro Mastrogiacomo e Gino Strada era stato messo in pista.
Insomma, per essere convincente il centrodestra avrebbe dovuto motivare il comportamento precedente e spiegare all’opinione pubblica le (buone) ragioni del voto contrario al Senato. Costruire il consenso nel paese è l’unico antidoto alla malevolenza della stampa. Ma nessuno ci ha pensato.
Forse i leader del centrodestra farebbero bene a fare una capatina, sabato prossimo, al Capranichetta di Roma, in Piazza Montecitorio, dove per l’intera giornata i Riformatori Liberali terranno un incontro pubblico su Nicolas Sarkozy. Potrebbero trarre vantaggio dall’analisi del modo di comunicare del candidato liberale all’Eliseo. Un capitolo del suo recente libro ‘Testimonianza’ è intitolato ‘L’esigenza di convincere’: “Penso che sia nostro dovere spiegare ciò che facciamo. Contrariamente a ciò che è comodo e confortante dire all’interno di un ufficio parigino, i francesi sono coscienti della necessità delle riforme e pronti a impegnarsi per il bene comune. Ma per impegnarli davvero bisogna presentare delle argomentazioni serie, bisogna convincerli”.
Ecco ciò che manca alla Casa delle Libertà e a Forza Italia in particolare: la voglia di spiegare, di convincere, di coinvolgere. Se questa voglia, che è essenziale alla politica, specie a quella liberale, ci fosse, forse diminuirebbe il rischio di commettere errori tattici che possono trasformarsi alla fine in rovesci strategici.

27.3.07

Presenze sinistre al Family Day. Una risposta a Lucia Annunziata.


Per L'Opinione del 28 marzo

Dopo Anna Serafini, Lucia Annunziata. Dopo la senatrice Ds, esponente di primo piano delle donne di sinistra anche, ma non soltanto, perché moglie del segretario Piero Fassino, la campionessa del giornalismo di sinistra. Entrambe vogliono partecipare al Family Day, organizzato per il 12 maggio da una miriade di associazioni cattoliche allo scopo di contrastare la legge sui Dico e rilanciare i valori della famiglia tradizionale. Strano ma vero. Ma forse meno strano allla luce della doppiezza tipica della cultura di gran parte della sinistra italiana, quella che si è formata all’ombra del togliattismo o ne ha assorbito i succhi realpolitici. Sia Serafini che Annunziata non si curano del fatto che la manifestazione cadrà sì nel giorno dedicato alla mamma, ma anche nell’anniversario della grande vittoria laica sul divorzio, ed ha quindi una certa tonalità revanscista. Pentite? Macché, loro ci andranno da donne laiche, di sinistra e femministe, sostenitrici dei Dico ma anche della famiglia, della laicità ma anche del ruolo della Chiesa.
Lucia Annunziata ha spiegato benissimo il perché sulla Stampa di lunedì scorso: primo, la famiglia è un punto fermo della tradizione operaia, di uno stile di vita austero contrapposto al libertinismo borghese; secondo, la famiglia al tempo stesso conserva i valori e accoglie le innovazioni, compresi i figli omosessuali e le coppie di fatto; terzo, la sinistra rischia una deriva indifferentista rispetto ai comportamenti individuali, all’educazione dei figli, e finisce spesso di chiudersi nel ghetto “di una somma di differenze indifferenti”. Conclusione dell’Annunziata: per tutte queste ragioni e anche per non cedere voti ai suoi avversari, il centrosinistra deve mantenere un legame forte e stretto col mondo cattolico e magari rinunciare ai Dico. Che vengono traditi all’ultima riga dopo essere stati esaltati nelle prime.
Siamo alle solite. E’ in base ad argomenti del genere che la Costituzione della Repubblica accolse nel suo seno la formula secondo cui “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, grazie alla remissività dei tre esponenti comunisti Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi e Nilde Jotti, che trattarono la resa dei laici di fronte alla parte confessionale, guidata, non a caso, da Dossetti. E a niente valsero allora le ragionevoli obiezioni di chi faceva notare come si trattasse di una formula vuota e superflua, come se si dicesse “L’Italia e la Francia sono, ciascuna nel proprio ordine, indipendenti e sovrane”. Peggiò andò quando il Pci decise, all’ultimo istante e per bocca di Togliatti, di votare a favore della costituzionalizzazione degli stessi Patti Lateranensi, in nome della ragion politica che imponeva di non lasciare alla Dc il monopolio dei valori e soprattutto degli elettori cattolici.
Ora, chi scrive è decisamente contrario ai Dico. Penso si tratti di una pesante ingerenza dello Stato nei confronti di cittadini che scelgono liberamente e consensualmente di non sposarsi, e trovo che basterebbero poche modifiche al codice civile per garantire parità di trattamento rispetto ai coniugi laddove ora esiste qualche discriminazione. Il più del resto è stato fatto il mese scorso con la norma che equipara i figli nati dentro e fuori il matrimonio rispetto ai diritti successori e parentali. Su questo concordo in parte con le obiezioni cattoliche: si tratta di un matrimonio di serie C (o di serie A, piuttosto: pochi doveri, molti vantaggi) alternativo, in particolare, all’istituto del matrimonio civile. Del resto i Dico sono essi stessi frutto di un compromesso al ribasso che ha portato cedere diritti in cambio di tutele. Al fine, non dichiarato ma evidente, di nulla concedere sul piano dei principi, tradizionali e confessionali, alle coppie omosessuali, le uniche a giustamente reclamare, essendo loro impedito il matrimonio, un riconoscimentio pubblico delle loro unioni.
Ma è inaccettabile che i fautori dei Dico pretendano ora di passare anche per difensori delle più ovvie e generiche concezioni della famiglia. Botte piena e amante ubriaca/o. Ennò. Come se la famiglia fosse di per sé un modello di comportamento e una fonte di valore, e non piuttosto un luogo d’incontro di libertà e responsabilità individuali, esposto alle intemperie della vita, da costruire ogni giorno nei suoi significati e valori molteplici.
Certo, Lucia Annunziata ha ragione quando descrive la furia devastante della concezione dei diritti propria di gran parte della sinistra: un “dirittismo” senza limiti e senza bilanciamento, erede naturale dell’egualitarimo che ha finito per liquidare come reazionario e un po’ fascista il richiamo al merito e alla differenza. A forza di esaltare la diversità la la sinistra l’ha resa uguale. E ha trasformato l’anticonformismo nel più irritante e vanesio dei conformismi. Ma chiamare a soccorso la tradizione clericale è un rimedio simile al male.

23.3.07

Parisi non può restare nel governo Prodi-D'Alema-Strada.


per l'Opinione del 24 marzo

Mettiamo che ci sia un paese impegnato in una trattativa con dei feroci sequestratori. Mettiamo che sia stato rapito un giornalista. Mettiamo che i servizi segreti di questo paese riescano a trovare un modo per liberarlo senza accedere alla richieste dei sequestratori. Mettiamo che l’operazione venga bloccata per consentire che invece il ricatto vada a buon fine. E che nessuno paghi per questa ignominia. Assurdo vero? Eppure è quanto è successo nei giorni scorsi in Italia. Per consentire a Gino Strada, ambasciatore di fatto dei talebani in Italia, di chiudere l’accordo con i tagliagole islamici e riconsegnare loro 5 capi militari detenuti nelle carceri afgane in cambio della consegna di Daniele Mastrogiacomo, il governo Prodi-D’Alema ha impedito ai servizi segreti italiani di arrivare alla liberazione dell’ostaggio per altra via.
Chi lo dice? Questa è la cosa più incredibile. Lo dice il ministro della Difesa di questo stesso governo, Arturo Parisi. E lo dice ad alta voce, a un giornalista del Corriere della Sera. Queste le parole di Parisi, riportate tra virgolette l’altro ieri da Francesco Verderami, e non smentite: “Quel che avevo da dire a Romano l’ho detto: i nostri servizi erano riusciti a trovare la strada per liberare Mastrogiacomo, ma è stato loro impedito. Ora dovremo fare i conti con le ripercussioni che rischiano di essere pesanti”. E ha aggiunto Parisi: “Le contraddizioni e la confusione nel governo, uniti ai modi sprezzanti del dottor Strada nei confronti dei servizi italiani hanno provocato un grave danno all’immagine dello Stato e la perdita di credibilità agli occhi degli alleati”.
Parole che in qualsiasi altro paese avrebbero provocato le dimissioni del ministro in questione oppure quelle del Governo ma che da noi sono state inghiottite dal silenzio come acqua sulla sabbia, tranne un’interpellanza firmata dall’on. Benedetto Della Vedova e dal predecessore di Parisi alla Difesa, Antonio Martino.
Le dichiarazioni di Parisi gettano anche una luce sull’apparente contraddizione nell’atteggiamento del governo Usa, che, a quel che ci racconta il ministro degli Esteri D’Alema, avrebbe dato il suo consenso all’operazione di scambio dei prigionieri per poi accusare l’Italia di essere venuta meno ai suoi impegni di lealtà. La realtà è un’altra. E’ assolutamente probabile, per non dire scontato, che il Dipartimento di Stato americano, e la stessa Condoleeza Rice, fossero convinti che il governo italiano agisse attraverso i suoi servizi segreti, e che lo scambio di informazioni sull’andamento delle trattative avvenisse a livello di intelligence. Ingenuità americana, questo sì, di fronte a un Governo che ha nel suo Dna la tradizione machiavellica del togliattismo. Si può ben immaginare la sorpresa a Washington quando, a cose fatte, si sono resi conto che il vero negoziato l’aveva condotto un misterioso personaggio di nome Gino Strada. Quel Gino Strada che nel giugno scorso aveva scritto sull’Unità, scambiando le sue paranoie per la realtà, che “la maggioranza degli afgani non vede il ritorno dei Talebani al potere come una «minaccia»: per molti sarebbe «meglio», per altri è «una speranza», alcuni perfino pregano perché succeda. Molti non hanno simpatia alcuna per i Talebani, ma giudicano ancora peggio il fatto che il loro Paese sia militarmente occupato da stranieri”; quello Strada che nella stessa occasione aveva lanciato per primo l’idea di un tavolo della pace allargato ai talebani, pensata brillantemente ripresa dal segretario dei Ds Fassino nel pieno del sequestro Mastrogiacomo. Quello Strada che l’altro giorno, ad autista sgozzato e giornalista liberato, ha ripetuto che “In Italia c’è una percezione distorta della realtà afgana. In questa storia ci si è voluti fidare del governo filoamericano di Karzai, che a parole garantiva piena collaborazione e massimo impegno, mentre nella realtà faceva di tutto per far fallire una trattativa che a Kabul, e forse anche altrove, non piaceva”.
Ora che il bubbone con gli Usa è scoppiato, ora che il Governo si è rassegnato a sorbire una giusta ma indecorosa rampogna dagli alleati, che senso ha offrire, da parte dell’opposizione, un qualsiasi sostegno a una missione in Afghanistan che, inutile quanto a contributo bellico e civile per i limiti imposti dalla sinistra massimalista, serve soltanto a mantenere in piedi il governo Prodi-D’Alema-Strada?

21.3.07

Perché Sircana non deve dimettersi, e perché sì.


“Qualcuno ha trovato il modo di rovinarmi. Eppoi io non ho queste brutte abitudini” (Il Giornale, 14 marzo)
“Smentire? E perché devo smentire? Questo merdaio non merita di essere smentito” (La Stampa 15 marzo)
“E’ l’antisistema che attacca chi ha sconfitto la destra. La nostra democrazia ha problemi di equilibrio” (La Stampa 15 marzo)
“E’stata la stupida deviazione di percorso di una sera d’estate. Ma dovrei dimettermi per questo?” (la Repubblica, 21 marzo).
Sono dichiarazioni di Silvio Sircana, il portavoce del Governo, le cui foto, mentre in macchina si accosta a un trans che si prostituisce sulla pubblica via, sono state finalmente pubblicate oggi. Deve dimettersi per questo? No.
Deve dimettersi per tutta un’altra serie di migliori ragioni. Perché ha cercato di “buttare in politica”, come se fosse un regolamento di conti fra destra e sinistra, una vicenda di tutt’altro genere. Perché non ha avuto nessuna parola di solidarietà per chi si trovava nella sua stessa situazione di gogna mediatica. Perché ha manifestato l’arroganza del potente che si sente al di sopra della verità e che è convinto di non dover neppure smentire le accuse che lo riguardano. Perché una casa editrice influente, che è anche il crocevia di interessi finanziari e bancari di primo piano, si è adoperata per togliere dalla circolazione, sborsando la non modica cifra di 100.000 euro, le foto che solo oggi lui giudica insignificanti. Per questo deve dimettersi. Non per una serata da sciroccato. Non per i suoi vizi privati. Quelli, beato chi non ce li ha. O guai a chi non ce li ha.

20.3.07

Mastrogiacomo, Belpietro, il mestiere di giornalista, e le dimissioni di Sircana.


per l'Opinione del 21 marzo

Due eventi hanno dominato le prime pagine dei giornali nelle ultime due settimane: il rapimento dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo sequestrato e poi rilasciato dai Talebani, e l’inchiesta cosiddetta Vallettopoli, diventata un affaire di Stato dopo il coinvolgimento del portavoce del Governo Silvio Sircana. Due vicende che non potrebbero essere più distanti, per la drammaticità della prima e l’atmosfera da vaudeville della seconda, ma che pongono entrambe la stessa questione: qual è il mestiere del giornalista? Che cosa deve fare un giornalista di fronte a una scelta che può mettere a repentaglio la sicurezza, la tranquillità, la carriera o addirittura la vita di altre persone?
Dopo la liberazione di Mastrogiacomo molti commentatori si sono posti ad alta voce le domande che prima circolavano sottotraccia: è giusto che la voglia di scoop di un inviato di guerra dia origine a una crisi internazionale che rischia di indebolire le alleanze di cui facciamo parte offrendo nuove munizioni mediatiche e militari al nemico? Vittorio Feltri ha detto con la massima chiarezza, come al solito, che lui un reportage come quello non l’avrebbe mai autorizzato, e ci ha descritto “la storiaccia imbarazzante” del “divo” Daniele che “non resiste all’attrazione fatale dei turbanti e si butta nell’avventura”. Anche un esperto di cose afgane come Filippo di Robilant, che ha lavorato fianco a fianco con Emma Bonino all’epoca delle sue missioni fra i Talebani, ha espresso ieri sull’Indipendente le sue perplessità: “scelte avventurose, quando non vanno per il verso giusto, possono avere effetti devastanti a tutti i livelli” e allora “a volte il vero coraggio, in questo mestiere, è quello di sapersi tirare indietro al momento giusto”.
Gli inviti alla prudenza e al senso di responsabilità sono assolutamente giustificati. Ma se ciò volesse dire: “cari inviati di guerra, chiudetevi in albergo a decifrare le fonti ufficiali, e inventatevi il resto”, non credo che la civiltà occidentale ne uscirebbe rafforzata. Se le nostre società sono libere, ciò si deve all’esercizio concreto di tale libertà, e il giornalismo ne è parte integrante. Anche quello deciso ad attraversare, alle volte letteralmente, il campo minato che separa i fronti. Non so quali precauzioni Mastrogiacomo avesse preso prima di decidersi a raggiungere il comando talebano. Ma anche se avesse fatto errori di valutazione, di questo si tratta: errori, difficilmente evitabili nell’esercizio di una professione che può porre di fronte a scelte difficili. Insomma: evitiamo che il giudizio negativo sulla politica estera del governo Prodi-D’Alema, che è sembrato cogliere al balzo la palla del rapimento per affidare a Gino Strada la gestione del conflitto fra la Nato e i Talebani, si trasformi in un invito all’anoressia giornalistica.
E vengo al caso Sircana, che si è via via trasformato nel caso Belpietro, Pizzetti, Belleri. Sul direttore del Giornale, reo di aver pubblicato il nome del portavoce del Governo, potenziale vittima di ricatto secondo i magistrati di Potenza, sono subito piovuti gli strali dell’Ordine dei giornalisti. L’imputazione? Non è chiara, ma in soldoni è quella di non aver usato due pesi e due misure, e di aver fatto di Sircana quello che tutti i giornali hanno fatto di tutti gli altri, affaristi, soubrettes, calciatori e quant’altro: carne da macello mediatico. Carne già macellata dalle Procure, beninteso, ed esposta in vetrina davanti all’immagine sorridente del Procuratore di turno, grazie a una legge sulle intercettazioni che consente da decenni ai magistrati di farsi belli di inchieste che, condotte in nome della repressione dei crimini di pochi, finiscono per limitare la libertà di tutti. Belpietro ha pubblicato l’unica notizia significativa fra tante: un uomo di Governo che trascorre una serata in mezzo alle prostitute e ai transessuali. Non fa notizia? Fa. L’Ordine, non è la prima volta, ha preso un abbaglio.
Ma non basta. Ecco che si schiera anche il Garante per la privacy, che, dopo anni di indifferenza di fronte alle violazioni più lampanti, emette un editto austriacante destinato a trasformarsi presto in una grida manzoniana, inapplicata e inapplicabile. Ma per intanto ottiene l’effetto di vietare la pubblicazione delle foto di Sircana. E qui viene il bello, perché si scopre quelle quelle foto in realtà sono impubblicabili non tanto per l’editto del professor Pizzetti, Garante in quota Prodi, ma perché protette da copyright: ne ha acquistato i diritti il settimanale Oggi, il cui direttore, Pino Belleri, spiega di aver pagato 25.000 euro per sottrarre le foto alla concorrenza, ma di aver poi deciso di non pubblicarle. E qui si apre il baratro, sotto ai piedi dell’Ordine dei giornalisti, e della stampa in generale. Perché poi si scopre che la somma pagata è di 100.000 euro, e che il managment dell’editore, la Rcs, ha dato il nulla osta ad un acquisto così oneroso e così inutile, in quanto inutilizzato. Perché? La risposta ce l’abbiamo tutti, anche se non si può scrivere.
Ora però restano da fare alcune cose: l’Ordine deve ritirare il procedimento contro Belpietro, che ha fatto il suo dovere. Qualcuno (l’Ordine? Non ci interessa) deve chiedere a Belleri e alla Rcs ragione del suo comportamento. Il Garante della privacy deve dare spiegazione del suo tardivo intervento, e più in generale di un intervento di censura preventiva che a molti sembra incompatibile con le norme generali sulla libertà di stampa. E soprattutto, il portavoce del Governo deve dare subito le dimissioni, non perché abbia passato una serata allegra e un po’ svampita, ma perché si è trovato e si trova al centro di un gioco oscuro di interessi in aperto conflitto con la sua funzione.

Caso Belleri: via i vertici dell’Ordine dei Giornalisti.


L’ordine dei giornalisti, che ha aperto un’incauta procedura contro il direttore del Giornale Maurizio Belpietro, accusato in sostanza di non avere due pesi e due misure e di applicare lo stesso metro di giudizio alle notizie che riguardano personaggi dello spettacolo o degli affari e personalità politiche di Governo, non ha nulla da dire sul fatto che Pino Belleri, direttore del settimanale ‘Oggi’, decida di acquistare ad altissimo prezzo delle foto compromettenti soltanto per non pubblicarle? Pare normale all’Ordine che l’editore di quel settimanale, la RCS, decida di sborsare una cifra come 100mila euro soltanto per togliere dalla circolazione quelle foto? Lo ritiene un fatto conforme alla deontologia?
Personalmente non chiedo e non mi aspetto nulla dall’Ordine, che ritengo un ente inutile in sé e dannoso nei fatti. Auspico però una cosa: le dimissioni dei suoi dirigenti, da un lato così acquiescenti verso i provvedimenti liberticidi dell’Autorità sulla Privacy, dall’altro incapaci di capire che il pericolo per la libertà di stampa proviene non dall’uso della libertà, ma dal suo soffocamento in nome di interessi diversi da quelli del giornalismo.

15.3.07

L'Afghanistan, la Nato e l'opposizione


E’ mai possibile che, in vista del prossimo voto al Senato sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, la principale se non l’unica preoccupazione che la politica e i commentatori sembrano avere riguardi la tenuta del governo Prodi? E non il modo di fronteggiare l’offensiva islamica contro le democrazie liberali dell’Occidente e contro ogni barlume di democrazia nel mondo musulmano? E non il contenimento dell’Iran del nazi-islamista Ahmadinejad, le cui ambizioni di leadership militarista verrebbero drammaticamente consolidate dal successo dell’offensiva talebana? Diciamoci la verità: non c’è alcuna ragione che l’opposizione continui a svenarsi per appoggiare una missione che dovrebbe essere invece radicalmente ripensata e rafforzata, e che solo così tornerebbe ad avere senso ed efficacia. Come ha detto alla Camera l’ex ministro della Difesa Antonio Martino “l’Italia dovrebbe dare il suo contributo a contrastare il tentativo dei talebani e di Al Qaeda di conquistare il potere in Afghanistan. Il caveat che impedisce ai nostri militari italiani di combattere dovrebbe essere rimosso: la posta in gioco è anche la loro sicurezza”.
Ci stiamo comportando, come spesso è accaduto in passato, da riottosa provincia dell’Impero, attenta soltanto al suo particulare, e ci sfugge invece la dimensione dello scontro globale in corso fra l’Impero liberaldemocratico, e la moltitudine dei suoi nemici. Un Impero controvoglia, quello a guida americana, che garantisce libertà civili e religiose, diritti politici, laicità e prospettive di benessere, di cui siamo parte integrante, ad esso legati nella vita e nella morte, ma che non vogliamo riconoscere nei suoi valori, nei suoi diritti, e tanto meno nei doveri ne conseguono.
Mentre continua l’angosciosa trattativa per il rilascio dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, oggi la discussione politica verte tutta su una questione irrilevante e accessoria: mantenere o no un contingente di 1900 militari dislocati tra la capitale Kabul ed Herat, nell'ovest. Prendono ufficialmente parte a una missione di peacekeeping della Nato che nel frattempo ha cambiato completamente natura, visto il fallimento dell’iniziativa multilaterale che ha fatto seguito alla guerra del 2001. E la loro sicurezza è sempre più a rischio, a meno che la missione non venga ridefinita negli obiettivi e nei mezzi a disposizione. Oggi infatti per la Nato non si tratta più di consolidare la vittoria e di fondare le basi di una democrazia afgana, ma di sostenere l’offensiva militare della nuova “Internazionale islamica” coalizzata attorno ai redivivi talebani.
Già al summit di Mons, nel quartier generale belga della Nato, nel settembre del 2006 i governi dell’Europa continentale avevano rifiutato la richiesta della Nato di inviare altre truppe e di modificare le regole d’ingaggio di quelle presenti. Non erano richieste esose: altri 2.500 soldati da dispiegare nel sud del Paese, dove sono in corso ormai da mesi i più violenti scontri dall'inizio della guerra. Ma solo la Lettonia, in quell’occasione rispose all'appello, accettando di mandare 20 soldati (venti). Nessuna risposta dagli altri alleati, nonostante l’intensificarsi dell’offensiva talebana in particolare nelle regioni meridionali di Kandahar e Helmand. e l’aumento progressivo delle vittime sia fra i civili che fra i 18.500 soldati del contingente Isaf-Nato, provenienti da 37 nazioni, e gli altrettanti militari statunitensi.
Neppure a Riga, nel successivo vertice di novembre, nonostante l’aggravarsi del conflitto, lo stallo è finito. L’Italia si è distinta, è vero, ma con una proposta insensata: quella di una Conferenza di Pace che non ha interlocutori e che nessun altro paese sostiene. Prodi, stretto fra la Nato e il Partito dei Comunisti Italiani, ha spiegato che l’Italia resta in Afghanistan “ma l'impegno militare per noi non è la sola risposta possibile. Noi pensiamo ad un impegno politico forte e di alto profilo che intervenga anche su problemi come il controllo dei confini, la lotta al narcotraffico, lo sviluppo infrastrutturale su base regionale”. Grandi parole. Però mano a mano che il costo umano sale, aumenta anche la tentazione di un progressivo disimpegno fra i diversi Paesi dalla “coalizione dei volenterosi”. Solo dall'inizio del 2007, i morti nel conflitto sarebbero stati 636 (fonte l’agenzia Peace Report) di cui 192 civili, 324 talebani, 99 militari afgani e 21 soldati Nato. Questo non ha indotto il Governo Prodi (e neppure quelli tedesco e spagnolo) a modificare i cosiddetti caveat per consentire al nostro contingente di dividere con canadesi, britannici e statunitensi (ma anche danesi e olandesi) il peso dei combattimenti.
Ora siamo nel pieno di un’operazione militare Nato, denominata “Achille” e che punta a ristabilire la sicurezza nel Sud, ovvero a liberare le zone controllate dai talebani. Ciò sarà possibile solo se le truppe Nato resteranno nel territorio occupato: per questo necessitano di uomini e mezzi. Ma l’Italia, come la Germania e la Spagna, non ne vuole sapere di spedire truppe al Sud, anche se l’altro ieri militari italiani e spagnoli avrebbero offerto una mano armata agli alleati per bloccare le milizie talebane in fuga da Sud. Non l’avessero mai fatto! La sinistra comunista è insorta e subito il sottosegretario alla difesa Forcieri è corso al Senato per smentire tutto. Un Governo sull’orlo della vergogna nazionale, come al solito venata di ambiguità e buone intenzioni, non merita nessun aiuto dall’opposizione.

Solidarietà a Sircana e Belpietro


Solidarietà a Sircana, anzitutto e in ogni caso. Ma solidarietà anche a Maurizio Belpietro, oggetto di attacchi ingiustificati e richieste di censura inaccettabili. Il direttore del Giornale ha fatto il suo dovere: ha avuto una notizia scottante e l’ha pubblicata. I suoi critici vorrebbero che si stampasse soltanto la notizia che il cane morde l’uomo: che la valletta si dona, a pagamento, al suo commendatore; ma non la notizia che l’uomo morde il cane: che il commendatore, in questo caso, frequenta il trans. Si dice: ma è tutto falso; oppure: non c’è reato; e ancora: la vittima finisce alla gogna. Ma guarda un po’, ve ne accorgete solo oggi?
L’Italia è una Repubblica giustizialista fondata sulle intercettazioni, lo sappiamo, no? La Procura di Vattelapesca è specializzata in intercettazioni sotto la cintura, lo sappiamo no? E’ legale? Par di sì, perché la legge non punisce né chi intercetta né chi pubblica le intercettazioni. E nessuna Procura ha mai punito chi le distribuisce illegalmente ai giornalisti. E allora che deve fare un direttore di giornale? L’unica scelta che ha è quella fra l’illegalità formale e l’omertà sostanziale, e se a qualcuno piace la seconda faccia pure. Avremo meno libertà di stampa e più ricatti di Palazzo.
Il rimedio c’è, ed è semplice, anche se nessun Parlamento sembra in grado di adottarlo. Limitare le intercettazioni solo ai reati più gravi e di alta pericolosità sociale, limitare il numero delle intercettazioni, limitare il numero degli intercettati. Ma le Procure si oppongono, perché questa limitazione comporterebbe il ritorno al faticoso lavoro dell’indagine e dell’ingegno. Ci sarebbe da lavorare. E si farebbe carriera per merito, non per anzianità e intercettazioni. E gogne mediatiche

9.3.07

A Piazza Farnese con Giuliani, Sarkozy e la Merkel


Noi Riformatori Liberali abbiamo aderito, soli soletti in tutto il centrodestra, alla manifestazione di sabato 10 marzo a sostegno dei diritti delle coppie omosessuali. Ha senso una presenza di esponenti del centrodestra nella manifestazione per il riconoscimento delle unioni civili fra omosessuali? Oppure è soltanto un rigurgito di libertarismo fuori stagione, una resa acquiescente al luogocomunismo buonista, la messa all’incasso di una cambiale a vuoto?
Guardiamoci intorno. Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, ora tra i favoriti per la nomination repubblicana alle elezioni del 2008, non soltanto ha partecipato senza problemi (a differenza del siindaco di Roma Veltroni) alle ‘gay parade’ della sua città, ma nel periodo burrascoso del suo divorzio (la fatidica estate del 2001) è andato ad abitare da una coppia di amici gay repubblicani, suscitando qualche sconcerto e qualche sospetto fra i suoi elettori. Giuliani se ne è bellamente disinteressato e ora, in piena campagna elettorale, conferma di essere favorevole al riconoscimento delle unioni civili per le coppie omosessuali, attirandosi attacchi da altri candidati, come di recente il governatore del Massachussetts Mitt Romney.
Andiamo in Francia. In una lettera inviata nel giugno 2006 al filosofo Luc Ferry, il ministro dell’Interno Nicholas Sarkozy chiedeva una riflessione sui temi della famiglia, del matrimonio e delle adozioni omosessuali, scrivendo fra l’altro: “Se i Pacs hanno costituito un progresso per il loro tempo, oggi non sembrano più corrispondere alle aspirazioni di una parte dei nostri concittadini che desiderebbero vedere attenuarsi o addirittura sparire le differenze che perdurano fra le coppie eterossessuali e quelle omosessuali”. Oggi il candidato liberale della Destra alle prossime presidenziali si dichiara favorevole a una nuova legge sulle unioni gay che vada oltre la tutela dei diritti sociali prevista dagli attuali pacs francesi.
Germania: il primo ministro Angela Merkel è da sempre favorevole alle unioni civili e il segretario generale del suo partito, la Cdu, Ronald Pofalla disse alla vigilia dell’ultimo congresso del partito: “Non vogliamo equiparare le coppie omosessuali, né riconoscere loro il diritto d’adozione ma non dimentichiamo che siamo il partito della tolleranza: dobbiamo rifiutare ogni discriminazione”.
Insomma, se la questione del matrimonio e delle adozioni resta estranea ai programmi della generalità dei partiti liberali e conservatori, le unioni civili omosessuali fanno invece parte del bagaglio culturale e politico dei loro leader più autorevoli e il movimento gay ha pieno diritto di cittadinanza all’interno dei partiti del centrodestra. L’eccezione italiana non siamo dunque noi Riformatori Liberali, ma chi, all’interno della Casa delle libertà, si abbarbica in nome della tradizione a una discriminazione illiberale e immotivata.

7.3.07

Ordine Giudiziario: resa senza condizioni alle Toghe


Secondo il ministro della Giustizia Mastella la riforma dell’ordinamento giudiziario varato oggi dal Governo, mette la parola fine alla stagione delle contrapposizioni tra politica e giustizia.
In realtà è la resa senza condizioni della politica alla pressione della parte più conservatrice e più illiberale della magistratura, al di là del predomini del rosso fra i colori delle toghe più attive.
Un Mastella insolitamente e preoccupantemente umile ha voluto rimarcare che la politica “ha depositato l’ascia di guerra nei confronti dei magistrati” e (ma qui il ministro ha espresso un semplice augurio) viceversa. La riforma è frutto della collaborazione costante fra Csm e ministro, ha spiegato, e da parte sua non è avvenuta “nessuna incursione piratesca” nell’ambito della sfera del Csm. Figuriamoci.
Tutto è bene quel che finisce bene insomma. Le correnti dei magistrati ritornano sovrane assolute della formazione, della valutazione, delle retribuzioni e dell’accesso alla professione, il Csm viene potenziato nel numero dei suoi componenti e nelle sue prerogative, non c’è più alcun elemento concreto di separazione delle funzioni fra Pm e Giudici, come pur timidamente nella già congelata legge Castelli.
E il ministro liquida con una battuta (“Non posso fare sempre l’eretico nel governo”) l’ipotesi della separazione della carriere, al centro da anni delle lotte politiche radicali e liberali e delle richieste dell’avvocatura italiana.
Ogni ambizione di riforma in chiave liberale e occidentale del sistema giudiziario è stata così “pacificamente” affossata dal centrosinistra. Giudici e Pm continueranno a condividere la carriera e le sue stazioni, in un intreccio di interessi che nega ai cittadini il diritto essenziale di avere un giudizio indipendente nell’ambito di un processo equo e equilibrato.



Su questo i Riformatori Liberali organizzano domani 8 marzo alle 10.30 a Roma un confronto pubblico per dire:

“No alla Controriforma della Giustizia”.
Strapotere della magistratura, Separazione delle carriere, Obbligatorietà dell’azione penale: proposte per una politica del Centrodestra.

8 marzo 2007, sala della Sacrestia, vicolo Valdina 3a, Roma ore 10.30-13.30

Relazioni: Giorgio Spangher, Università La Sapienza, Oreste Dominioni, presidente Unione Camere Penali, Interventi: Gaetano Pecorella, Ignazio La Russa, Michele Vietti, Benedetto Della Vedova, Mauro Mellini, Marco Taradash, Peppino Calderisi, Carmelo Palma. Presiede: Avv. Emilia Rossi