15.3.07

L'Afghanistan, la Nato e l'opposizione


E’ mai possibile che, in vista del prossimo voto al Senato sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, la principale se non l’unica preoccupazione che la politica e i commentatori sembrano avere riguardi la tenuta del governo Prodi? E non il modo di fronteggiare l’offensiva islamica contro le democrazie liberali dell’Occidente e contro ogni barlume di democrazia nel mondo musulmano? E non il contenimento dell’Iran del nazi-islamista Ahmadinejad, le cui ambizioni di leadership militarista verrebbero drammaticamente consolidate dal successo dell’offensiva talebana? Diciamoci la verità: non c’è alcuna ragione che l’opposizione continui a svenarsi per appoggiare una missione che dovrebbe essere invece radicalmente ripensata e rafforzata, e che solo così tornerebbe ad avere senso ed efficacia. Come ha detto alla Camera l’ex ministro della Difesa Antonio Martino “l’Italia dovrebbe dare il suo contributo a contrastare il tentativo dei talebani e di Al Qaeda di conquistare il potere in Afghanistan. Il caveat che impedisce ai nostri militari italiani di combattere dovrebbe essere rimosso: la posta in gioco è anche la loro sicurezza”.
Ci stiamo comportando, come spesso è accaduto in passato, da riottosa provincia dell’Impero, attenta soltanto al suo particulare, e ci sfugge invece la dimensione dello scontro globale in corso fra l’Impero liberaldemocratico, e la moltitudine dei suoi nemici. Un Impero controvoglia, quello a guida americana, che garantisce libertà civili e religiose, diritti politici, laicità e prospettive di benessere, di cui siamo parte integrante, ad esso legati nella vita e nella morte, ma che non vogliamo riconoscere nei suoi valori, nei suoi diritti, e tanto meno nei doveri ne conseguono.
Mentre continua l’angosciosa trattativa per il rilascio dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, oggi la discussione politica verte tutta su una questione irrilevante e accessoria: mantenere o no un contingente di 1900 militari dislocati tra la capitale Kabul ed Herat, nell'ovest. Prendono ufficialmente parte a una missione di peacekeeping della Nato che nel frattempo ha cambiato completamente natura, visto il fallimento dell’iniziativa multilaterale che ha fatto seguito alla guerra del 2001. E la loro sicurezza è sempre più a rischio, a meno che la missione non venga ridefinita negli obiettivi e nei mezzi a disposizione. Oggi infatti per la Nato non si tratta più di consolidare la vittoria e di fondare le basi di una democrazia afgana, ma di sostenere l’offensiva militare della nuova “Internazionale islamica” coalizzata attorno ai redivivi talebani.
Già al summit di Mons, nel quartier generale belga della Nato, nel settembre del 2006 i governi dell’Europa continentale avevano rifiutato la richiesta della Nato di inviare altre truppe e di modificare le regole d’ingaggio di quelle presenti. Non erano richieste esose: altri 2.500 soldati da dispiegare nel sud del Paese, dove sono in corso ormai da mesi i più violenti scontri dall'inizio della guerra. Ma solo la Lettonia, in quell’occasione rispose all'appello, accettando di mandare 20 soldati (venti). Nessuna risposta dagli altri alleati, nonostante l’intensificarsi dell’offensiva talebana in particolare nelle regioni meridionali di Kandahar e Helmand. e l’aumento progressivo delle vittime sia fra i civili che fra i 18.500 soldati del contingente Isaf-Nato, provenienti da 37 nazioni, e gli altrettanti militari statunitensi.
Neppure a Riga, nel successivo vertice di novembre, nonostante l’aggravarsi del conflitto, lo stallo è finito. L’Italia si è distinta, è vero, ma con una proposta insensata: quella di una Conferenza di Pace che non ha interlocutori e che nessun altro paese sostiene. Prodi, stretto fra la Nato e il Partito dei Comunisti Italiani, ha spiegato che l’Italia resta in Afghanistan “ma l'impegno militare per noi non è la sola risposta possibile. Noi pensiamo ad un impegno politico forte e di alto profilo che intervenga anche su problemi come il controllo dei confini, la lotta al narcotraffico, lo sviluppo infrastrutturale su base regionale”. Grandi parole. Però mano a mano che il costo umano sale, aumenta anche la tentazione di un progressivo disimpegno fra i diversi Paesi dalla “coalizione dei volenterosi”. Solo dall'inizio del 2007, i morti nel conflitto sarebbero stati 636 (fonte l’agenzia Peace Report) di cui 192 civili, 324 talebani, 99 militari afgani e 21 soldati Nato. Questo non ha indotto il Governo Prodi (e neppure quelli tedesco e spagnolo) a modificare i cosiddetti caveat per consentire al nostro contingente di dividere con canadesi, britannici e statunitensi (ma anche danesi e olandesi) il peso dei combattimenti.
Ora siamo nel pieno di un’operazione militare Nato, denominata “Achille” e che punta a ristabilire la sicurezza nel Sud, ovvero a liberare le zone controllate dai talebani. Ciò sarà possibile solo se le truppe Nato resteranno nel territorio occupato: per questo necessitano di uomini e mezzi. Ma l’Italia, come la Germania e la Spagna, non ne vuole sapere di spedire truppe al Sud, anche se l’altro ieri militari italiani e spagnoli avrebbero offerto una mano armata agli alleati per bloccare le milizie talebane in fuga da Sud. Non l’avessero mai fatto! La sinistra comunista è insorta e subito il sottosegretario alla difesa Forcieri è corso al Senato per smentire tutto. Un Governo sull’orlo della vergogna nazionale, come al solito venata di ambiguità e buone intenzioni, non merita nessun aiuto dall’opposizione.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

D'accordissimo. Il Centrodestra deve votare no e mandare a casa Prodi. Poi si vedrà

4:34 PM  

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