Mastrogiacomo, Belpietro, il mestiere di giornalista, e le dimissioni di Sircana.
per l'Opinione del 21 marzo
Due eventi hanno dominato le prime pagine dei giornali nelle ultime due settimane: il rapimento dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo sequestrato e poi rilasciato dai Talebani, e l’inchiesta cosiddetta Vallettopoli, diventata un affaire di Stato dopo il coinvolgimento del portavoce del Governo Silvio Sircana. Due vicende che non potrebbero essere più distanti, per la drammaticità della prima e l’atmosfera da vaudeville della seconda, ma che pongono entrambe la stessa questione: qual è il mestiere del giornalista? Che cosa deve fare un giornalista di fronte a una scelta che può mettere a repentaglio la sicurezza, la tranquillità, la carriera o addirittura la vita di altre persone?
Dopo la liberazione di Mastrogiacomo molti commentatori si sono posti ad alta voce le domande che prima circolavano sottotraccia: è giusto che la voglia di scoop di un inviato di guerra dia origine a una crisi internazionale che rischia di indebolire le alleanze di cui facciamo parte offrendo nuove munizioni mediatiche e militari al nemico? Vittorio Feltri ha detto con la massima chiarezza, come al solito, che lui un reportage come quello non l’avrebbe mai autorizzato, e ci ha descritto “la storiaccia imbarazzante” del “divo” Daniele che “non resiste all’attrazione fatale dei turbanti e si butta nell’avventura”. Anche un esperto di cose afgane come Filippo di Robilant, che ha lavorato fianco a fianco con Emma Bonino all’epoca delle sue missioni fra i Talebani, ha espresso ieri sull’Indipendente le sue perplessità: “scelte avventurose, quando non vanno per il verso giusto, possono avere effetti devastanti a tutti i livelli” e allora “a volte il vero coraggio, in questo mestiere, è quello di sapersi tirare indietro al momento giusto”.
Gli inviti alla prudenza e al senso di responsabilità sono assolutamente giustificati. Ma se ciò volesse dire: “cari inviati di guerra, chiudetevi in albergo a decifrare le fonti ufficiali, e inventatevi il resto”, non credo che la civiltà occidentale ne uscirebbe rafforzata. Se le nostre società sono libere, ciò si deve all’esercizio concreto di tale libertà, e il giornalismo ne è parte integrante. Anche quello deciso ad attraversare, alle volte letteralmente, il campo minato che separa i fronti. Non so quali precauzioni Mastrogiacomo avesse preso prima di decidersi a raggiungere il comando talebano. Ma anche se avesse fatto errori di valutazione, di questo si tratta: errori, difficilmente evitabili nell’esercizio di una professione che può porre di fronte a scelte difficili. Insomma: evitiamo che il giudizio negativo sulla politica estera del governo Prodi-D’Alema, che è sembrato cogliere al balzo la palla del rapimento per affidare a Gino Strada la gestione del conflitto fra la Nato e i Talebani, si trasformi in un invito all’anoressia giornalistica.
E vengo al caso Sircana, che si è via via trasformato nel caso Belpietro, Pizzetti, Belleri. Sul direttore del Giornale, reo di aver pubblicato il nome del portavoce del Governo, potenziale vittima di ricatto secondo i magistrati di Potenza, sono subito piovuti gli strali dell’Ordine dei giornalisti. L’imputazione? Non è chiara, ma in soldoni è quella di non aver usato due pesi e due misure, e di aver fatto di Sircana quello che tutti i giornali hanno fatto di tutti gli altri, affaristi, soubrettes, calciatori e quant’altro: carne da macello mediatico. Carne già macellata dalle Procure, beninteso, ed esposta in vetrina davanti all’immagine sorridente del Procuratore di turno, grazie a una legge sulle intercettazioni che consente da decenni ai magistrati di farsi belli di inchieste che, condotte in nome della repressione dei crimini di pochi, finiscono per limitare la libertà di tutti. Belpietro ha pubblicato l’unica notizia significativa fra tante: un uomo di Governo che trascorre una serata in mezzo alle prostitute e ai transessuali. Non fa notizia? Fa. L’Ordine, non è la prima volta, ha preso un abbaglio.
Ma non basta. Ecco che si schiera anche il Garante per la privacy, che, dopo anni di indifferenza di fronte alle violazioni più lampanti, emette un editto austriacante destinato a trasformarsi presto in una grida manzoniana, inapplicata e inapplicabile. Ma per intanto ottiene l’effetto di vietare la pubblicazione delle foto di Sircana. E qui viene il bello, perché si scopre quelle quelle foto in realtà sono impubblicabili non tanto per l’editto del professor Pizzetti, Garante in quota Prodi, ma perché protette da copyright: ne ha acquistato i diritti il settimanale Oggi, il cui direttore, Pino Belleri, spiega di aver pagato 25.000 euro per sottrarre le foto alla concorrenza, ma di aver poi deciso di non pubblicarle. E qui si apre il baratro, sotto ai piedi dell’Ordine dei giornalisti, e della stampa in generale. Perché poi si scopre che la somma pagata è di 100.000 euro, e che il managment dell’editore, la Rcs, ha dato il nulla osta ad un acquisto così oneroso e così inutile, in quanto inutilizzato. Perché? La risposta ce l’abbiamo tutti, anche se non si può scrivere.
Ora però restano da fare alcune cose: l’Ordine deve ritirare il procedimento contro Belpietro, che ha fatto il suo dovere. Qualcuno (l’Ordine? Non ci interessa) deve chiedere a Belleri e alla Rcs ragione del suo comportamento. Il Garante della privacy deve dare spiegazione del suo tardivo intervento, e più in generale di un intervento di censura preventiva che a molti sembra incompatibile con le norme generali sulla libertà di stampa. E soprattutto, il portavoce del Governo deve dare subito le dimissioni, non perché abbia passato una serata allegra e un po’ svampita, ma perché si è trovato e si trova al centro di un gioco oscuro di interessi in aperto conflitto con la sua funzione.
2 Comments:
interessante la seconda parte, anche se la richiesta di dimissioni andrebbe meglio motivata: deve dimettersi perchè gli amici, che non dovrebbero essere tali in una democrazia a poteri indipendenti, gli hanno salvato il culo?
sulla prima parte: tutto vero, però qual'è la soluzione. che la stampa autolimiti la propria libertà, in nome di una appartenenza nazionale? o, forse, meglio, che la stampa si tenga la propria libertà e spregiudicatezza, ma che, di conseguenza, il governo della nazione di appartenenza della testata non diventi, automaticamente, responsabile per la sicurezza di tale stampa?
Purché non si continui a svuotare le carceri dai tagliagole!
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