La Cdl e la lezione di Sarkozy

per l'Opinione del 30 marzo
Premessa. Concordo con chi ritiene che Pierferdinando Casini col suo voto a sostegno della missione in Afghanistan abbia consentito al centrosinistra di nascondere le sue laceranti divisioni interne. Assicurando a priori il suo appoggio al Governo Casini ha soffocato sul nascere ogni possibile sospiro di dissenso della parte riformista della maggioranza, e ha regalato a Prodi alcuni mesi di navigazione più o meno tranquilla. Perché l’ha fatto mi pare chiaro, e d’altra parte non lo nasconde: punta a un accordo sulla legge elettorale per sfaldare il bipolarismo “primitivo” e “conflittuale”, consentendo i partiti di centro a scegliere dopo le elezioni, se necessario, quale maggioranza formare. Un salto all’indietro di quindici anni, con la differenza che la Prima Repubblica non permetteva, per la presenza auto-escludente del Pci, alternanze di governo, ma solo nel governo. Il nuovo centro post-democristiano avrà così molta più libertà di movimento della vecchia Dc se le ambizioni di Casini si realizzeranno, ma gli elettori perderanno definitivamente la sovranità politica, già abbondantemente limata dalla quota proporzionale del “mattarellum” e dall’attuale “porcellum”. Ai liberali questo progetto non può piacere.
Ciò detto, resta da chiedersi come mai il centrodestra sia riuscito nell’impresa di trasformare un evento normale nella vita dell’opposizione parlamentare, il ritrovarsi in minoranza, in una sconfitta politica così grave da offrire il destro alla grande stampa di cantare l’elogio funebre della Casa delle libertà. In altre parole, dato per scontato che gli avversari di Berlusconi altro non aspettavano che un passo falso qualsiasi per riprendere il fuoco ad alzo zero contro la sua leadership, e lavorare a una successione più conforme ai loro interessi, perché mai il leader dell’opposizione non ha valutato le conseguenze del voto, costringendo persino il Giornale a titolare il suo editoriale “Centrodestra da reinventare”?
Hanno sbagliato Berlusconi, Fini e Bossi ad astenersi al Senato (cioè, in pratica, a votare contro)? Assolutamente no. Sono settimane che scrivo che la missione italiana ha cambiato natura negli ultimi mesi e che, come tutta la politica estera del governo Prodi-D’Alema, serve solo di copertura per una strategia che indebolisce drammaticamente l’alleanza euroatlantica guidata dagli Usa. L’errore sta nella sequenza di voti contraddittori, nell’incertezza strategica e nella mancanza di comunicazione.
Il capogruppo di FI al Senato, Renato Schifani ha motivato così l’astensione a pochi giorni dal voto favorevole alla Camera: “Vorrei esordire con una risposta a una domanda che più volte, sia il Governo che i Capigruppo della maggioranza, hanno posto a noi dell'opposizione (quantomeno a Forza Italia, AN e Lega). La domanda concerne il motivo di questo cambiamento di posizione nel giro di soli dieci giorni o due settimane. Il motivo lo abbiamo spiegato più volte: in questi dieci giorni o due settimane si sono verificati eventi che hanno mutato il quadro politico-militare della nostra missione in Afghanistan”.
Convincente? Ahimé no. In realtà non è successo nulla di nuovo in queste due settimane. Già nel settembre del 2006 al summit di Mons, nel quartier generale belga della Nato, l’Italia aveva detto no alla richiesta della Nato di inviare altre truppe in Afghanistan, vista l’offensiva talebana già in corso e quella prevista per la primavera di quest’anno, e di modificare le regole d’ingaggio di quelle presenti. Neppure a Riga, nel successivo vertice di novembre, nonostante l’aggravarsi del conflitto, la risposta di Prodi era cambiata. E, al momento della discussione alla Camera, già era pervenuta al nostro governo la “lettera aperta agli italiani” sottoscritta dagli ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Olanda e Romania, in cui si ricordavano le ragioni che avevano portato i nostri militari in Afghanistan e si chiedeva di rafforzarne la presenza. Un fatto straordinario, come notò Antonio Martino proprio nella dichiarazione di voto finale: “In sessant'anni non era mai accaduto che gli ambasciatori di sei paesi dovessero scrivere una lettera per richiamare il Governo italiano ai suoi obblighi internazionali”. E infine già era in corso il sequestro Mastrogiacomo e Gino Strada era stato messo in pista.
Insomma, per essere convincente il centrodestra avrebbe dovuto motivare il comportamento precedente e spiegare all’opinione pubblica le (buone) ragioni del voto contrario al Senato. Costruire il consenso nel paese è l’unico antidoto alla malevolenza della stampa. Ma nessuno ci ha pensato.
Forse i leader del centrodestra farebbero bene a fare una capatina, sabato prossimo, al Capranichetta di Roma, in Piazza Montecitorio, dove per l’intera giornata i Riformatori Liberali terranno un incontro pubblico su Nicolas Sarkozy. Potrebbero trarre vantaggio dall’analisi del modo di comunicare del candidato liberale all’Eliseo. Un capitolo del suo recente libro ‘Testimonianza’ è intitolato ‘L’esigenza di convincere’: “Penso che sia nostro dovere spiegare ciò che facciamo. Contrariamente a ciò che è comodo e confortante dire all’interno di un ufficio parigino, i francesi sono coscienti della necessità delle riforme e pronti a impegnarsi per il bene comune. Ma per impegnarli davvero bisogna presentare delle argomentazioni serie, bisogna convincerli”.
Ecco ciò che manca alla Casa delle Libertà e a Forza Italia in particolare: la voglia di spiegare, di convincere, di coinvolgere. Se questa voglia, che è essenziale alla politica, specie a quella liberale, ci fosse, forse diminuirebbe il rischio di commettere errori tattici che possono trasformarsi alla fine in rovesci strategici.