
Ammettiamolo. Luciano Moggi non ha un aspetto simpatico. Assomiglia esattamente a quello che è: un trafficante di uomini in calzoni corti. Non di schiavi però, ma di miliardari, il che fa una certa differenza. Ce ne saranno di più simpatici e più raffinati in quel giro, ma la media non dev’essere molto diversa: ve la ricordate la tremenda Christina Pagniacci, la spregiudicata insensibile proprietaria dei Miami Sharks in “Ogni maledetta domenica”, il film di Oliver Stone, e i suoi epici scontri col generoso Al Pacino, allenatore vecchio stile? Certo un paragone fra Cameron Diaz e Luciano Moggi è azzardato, lo capisco, ma l’ambientino è quello. Dove lo sport si intreccia coi quattrini, con tanti tanti quattrini, tutto il mondo è paese. Se poi la spregiudicatezza si incontra con un ambiente dove predomina la logica di scambio, il favoritismo, il politicantismo, l’indifferenza verso le regole, l’ignoranza del mercato, l’assenza dei controlli, allora siamo in Italia. Dove ogni due per tre scoppia il caso. Che suscita sdegno, impone autocritiche, costringe ad approvare una ultima imprescindibilmente ultima legge salva-sistema, dopo di che tutti gli scampati ricominciano a fare esattamente quello che facevano prima. Parma, Lazio, Roma, Catania, Torino, Napoli, Genoa, Fiorentina.. tutte pietre miliari degli scandali calcistici più recenti. Tutte ultime volte, naturalmente.
Ora tocca alla regina, la Juve, e al suo stalliere (parere di Gianni Agnelli su Moggi: “Lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli”). 100.000 telefonate registrate, trascritte e generosamente fatte filtrare dagli uffici di varie procure della Repubblica ci hanno fatto annusare senza filtri l’odore di stalla che emana dal calcio italiano, e siamo tutti qui a premerci il fazzoletto sul naso per non vomitare. Grazie procure! E’ il grido che si leva da mezza Italia, quella non juventina. Quanto godiamo nel vedere gli adoratori della zebra con la coda fra le zampe, finalmente. Però.
Però, facciamo attenzione. Però sta succedendo qualcosa che non ci piace per nulla, nemmeno a noi che adoriamo Totti. Succedono cose già viste all’epoca della guerra alla mafia, e poi di tangentopoli, solo che ora ne vediamo il replay, alla moviola. Taroccata. Sì, anche questa di calciopoli.
Ve lo ricordate il processo Andreotti? Figura politica discussa assai, il Moggi della Dc potremmo dire. A me Andreotti non è mai piaciuto, né prima né dopo il processo. Ma quando l’hanno accusato, Luciano Violante, Giancarlo Caselli, il Pci-Pds-Ds e i suoi emissari nella magistratura, di essere uomo di mafia, di aver baciato in bocca Totò Riina, di aver truccato processi col più autorevole, colto e austero dei magistrati italiani, il presidente della I sezione della Cassazione Corrado Carnevale, abbiamo capito qual era l’operazione: mettere una pietra sopra al sistema di collusioni fra mafia e politica, che attraversava i maggiori partiti siciliani, dalla Dc, con tutte le sue principali correnti di destra e di sinistra, al Psi al PCI, ricostruirne la verginità e affidare alla sinistra la guida morale dell’antimafia, e l’immenso potere che ne derivava. E allora sono diventato, e tante altre persone con la schiena dritta con me, andreottiano. E i giudici di Palermo mi hanno costretto a restare andreottiano per dieci anni, cosa che non gli perdonerò mai!
Trasferiamoci a Milano. Tangentopoli, grande inchiesta contro la corruzione politica. Finalmente i taglieggiatori che si erano annidati nel cuore delle istituzioni e del sistema dei partiti venivano smascherati, evviva. Ma l’inchiesta giudiziaria, benemerita, contro sprechi, ruberie e corruzione, durò poco. Subentrò l’operazione “Mani Pulite”, la strategia del ragno organizzata dai giudici di partito e dal partito dei giudici per coinvolgere le loro vittime e tutta l’opinione pubblica in un disegno politico golpista: azzerare la prima repubblica, liquidare i partiti che l’avevano governata, affidare alla sinistra scampata alle retate la ricostruzione del sistema sotto la tutela dei ‘guardiani della virtù’ delle Procure. A un passo dal successo il progetto fallì, perché dal vuoto politico scavato nell’Italia anticomunista uscì il drago Berlusconi (a proposito, ancora e sempre grazie, nonostante tutto).
Ed eccoci a Moggi. E al perché oggi “non possiamo non dirci juventini”, cari Liguori, Marcenaro e compagnia decantante (l’inchiesta giudiziaria).
Primo perché le intercettazioni non sono un’indagine, ma mezzi accessori. Cento sono utili, mille abbondanti, diecimila uno sproposito, centomila un indicibile spreco di risorse finanziarie, organizzative e umane. E, in un paese libero, uno scandalo. Secondo, perché Moggi è quello che le intercettazioni descrivono, ma i suoi compari e avversari saranno diversi? Finché non lo sapremo avremo soltanto la visione della parte illuminata del pianeta di cuoio. Dateci un’altra milionata di intercettazioni e cominceremo davvero a capire qualcosa. Terzo (e, come Totò, anche stavolta l’affaire si butta a sinistra) perché col mostro sbattuto in prima pagina dalle Procure e dai giornali si sta compiendo la solita operazioncina: scartato con una finta Gianni Letta, commissario del calcio diventa Guido Rossi. Un’autorevole personalità certo, ma perché scegliere proprio chi si fece eleggere nelle liste del PCI al Senato e ancora una decina di giorni fa sponsorizzava l’ascesa di D’Alema al Quirinale? E c’era proprio bisogno di un nuovo ministero, quello per lo sport, e di affidarlo a una ultrà diessina come Giovanna Melandri? State tranquilli, se passa l’idea che il problema del calcio italiano è Moggi, il marciume del calcio riceverà solo una ripulitura di facciata, come accaduto per la mafia, o per la corruzione amministrativa, ma i profitti politici saranno riscossi da una parte sola. Sempre quella.