12.12.05

Sull'inchiesta de Il Tempo sugli aborti "facili" a Roma

Da Il Tempo del 10 dicembre 2005, p. 1

Lettera di Marco Taradash

Caro direttore, se l'inchiesta del Tempo sulla "fabbrica degli aborti" avesse voluto farci capire che di ospedali meglio organizzati e più "amichevoli" abbiamo bisogno a Roma e in Italia, e di medici meno sbrigativi, e di strutture più accoglienti, beh, ci sarebbe riuscita. Ma, diciamocelo francamente, è come sparare sulla Croce Rossa. Anzi, pardon, sul Cristallo Rosso, come da oggi dovremo chiamare quella benemerita organizzazione, in virtù della "correttezza politica" che impedisce di esporre segni che richiamano identità religiose particolari - segno dei tempi, e di tempi duri (che tali sono a causa del diffondersi non della laicità, ma del fanatismo religioso di marca islamica).
Se invece lo scopo dell'inchiesta era, come era, di mostrare la solitudine di due ragazzi, due fidanzatini, che si trovano a dover affrontare l'angoscia di un aborto, non saprei dire come è andata. Mi domando: è davvero lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, che può dare una risposta a un dilemma morale, o sociale, così personale? Non hanno questi ragazzi genitori comprensivi, o coetanei attenti, o un amico di famiglia, o un sacerdote capace di ascolto, con cui confrontarsi prima di decidere? È naturale, in situazioni così difficili, attendersi aiuto e conforto psicologico anche da chi, un medico ginecologo o un'infermiera appena incontrati, non ha alcuna speciale professionalità per trattare con persone di cui sono sconosciute psicologia, storia, retroterra sociale o affettivo. Certo, si può essere fortunati e incontrare uno di quei medici che in generale hanno più attenzione per il malato che per la malattia: ce ne sono, immagino. Ma, diciamocelo francamente, dai medici ci aspettiamo di solito che facciano al meglio il loro lavoro di ausculta, taglia e cuci, e se tutto fila liscio tiriamo un bel sospiro di sollievo. Il resto è optional. In questo caso, è vero, non di malattia si tratta, ma di una richiesta di intervento medico molto particolare. La legge, lo si sa, non affida al medico il compito di mettere in discussione la scelta della donna che vuole abortire: la struttura sanitaria o il consultorio sono tenuti invece a esaminare se l'aborto è davvero una scelta obbligata quando alla sua origine vi sono ragioni economiche, sociali o familiari. Ma le leggi, specie in Italia, alle volte sono più manifesti ideologici che prescrizioni pratiche. Cosa significa infatti "offrire tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto" come recita la legge 194? Tutti gli aiuti necessari, chi mai potrà garantirli? E' vero quanto lei scrive, che per le donne immigrate, che sono arrivate in Italia da paesi lontani per lavorare, e che oggi alimentano le statistiche sull'incremento degli aborti in Italia, l'alternativa reale è fra il bambino e il lavoro, fra la gravidanza e la casa che le ospita. Anche se volessero avere un figlio, non potrebbero. È profondamente ingiusto che sia così, ma se esiste una soluzione questa non può venire, temo, dalle strutture pubbliche. Negli Stati Uniti, sotto la pressione congiunta dei gruppi antiabortisti conservatori e dei sostenitori liberal delle "azioni positive", per lungo tempo hanno finanziato adeguatamente le ragazze madri, specie quelle di colore. Ma il risultato è stato negativo: è aumentato il numero dei figli nati fuori del matrimonio solo per garantire a madri e più spesso padri nullafacenti l'assegno sociale, si sono moltiplicati i casi di ragazzini e ragazzine abbandonati al loro destino sulle strade dello spaccio, della prostituzione e della delinquenza urbana. Finché non è stata fatta marcia indietro. Ben vengano allora i volontari pro-life nei consultori, ne sono convinto anch'io. Purché non sia un'ennesima forma di volontariato all'italiana, senza criteri di valutazione della professionalità ma con stipendio garantito. Purché ci sia capacità di ascolto più che fervore di predicazione, perché -come ha scritto benissimo sull'Avvenire, il quotidiano dei Vescovi, Marina Corradi - "fa tremare l'idea che si possa anche solo pensare di portare nei consultori la veemenza che alcuni usarono nella battaglia del referendum abrogativo della legge 194". In ogni caso, lo sappiamo, il numero degli aborti potrà essere sì ridotto, ma non certo cancellato. E, al di là del giudizio sulla legge 194, resta il fatto positivo che nel corso degli ultimi venti anni fra le italiane il numero degli aborti si è dimezzato. Merito di una consapevolezza maggiore sulla scelta di abortire e sulle sue conseguenze, delle condizioni di vita migliori, di una cultura sessuale più matura, della diffusione dei contraccettivi. A proposito della contraccezione: resta in me lo stupore sull'intransigenza della Chiesa contro la diffusione di questo che è il principale strumento per ridurre gravidanze indesiderate e interruzioni di gravidanza, nonché le infezioni sessuali, Aids in primo luogo. Ho letto che in paesi europei come la Romania, dove i contraccettivi sono ancora poco diffusi, e non certo per ragioni religiose, il tasso di aborti rispetto alle gravidanze è altissimo, e sfiora l'80 per cento. Detto questo, che pure va ricordato, la foto che ieri il Tempo ha pubblicato in prima pagina, vale più di mille articoli. Il problema c'è. C'è, al di là delle diverse opinioni sulle questioni di fondo (l'inizio della vita umana o il concetto di persona) che non dovrebbero mai essere usate come stendardi ideologici o confessionali da agitare contro chi la pensa diversamente. E forse, proprio perché sono divisi in modo inconciliabile sulle questioni di fondo, i sostenitori della libera scelta e quelli della vita a ogni costo - i "pro-choice" e i "pro-life"- hanno il dovere di dare valore a ciò che li unisce più che a ciò che li divide.
Marco Taradash

La risposta di Franco Bechis, direttore de Il Tempo

Caro Marco, sono d'accordo con te su molte cose che scrivi. Ma lasciami partire dall'ultima perché è quella essenziale: la foto pubblicata ieri e oggi riproposta da Il Tempo. Come dici tu, vale più di mille articoli. Molti sono rabbrividiti per lo choc. I centralini di questo giornale sono stati roventi ieri. Qualcuno ci ha insultato, altri ancora si sono scandalizzati. Ma quella foto non ritrae l’orrore. Non è un corpo devastato. Non c’è un rivolo di sangue. È l’immagine di un bimbo. Ma è anche la testimonianza di un’assenza. Per nessun altro motivo al mondo l’ho pubblicata e oggi la ripropongo. Perché, Marco, quando io e te discutiamo di aborto, parliamo di lui. Come è possibile estirpare quella presenza dalle nostre piccole ragioni? Tutti i giorni siamo attraversati dai drammi della vita e dalla scure della morte. Talmente attraversati da avere la pelle dura. Notizie e immagini hanno reso quotidiano ogni orrore e quel tremito naturale di umanità che almeno una volta tutti abbiamo provato, sembra essersi spento come la luce fioca di una candela. Che l’aborto sia una tragedia, una scelta disperata sul filo della vita e della morte, lo posso comprendere. Per questo non sono colpito dai numeri, che pure sono un fatto, dai casi dimezzati delle italiane che quella decisione hanno preso. Sono spaventato da qualcosa che non ha numeri a sostegno, ma un’evidenza terribile: l’anestesia sparsa generosamente su ogni orrore, dolore, disperazione, dramma. Sulla vita e sui fatti. Mi terrorizza che una foto come questa indigni e faccia orrore. È l’immagine di un fatto, che nessun medico, nessuna pillola abortiva può togliere di mezzo. Bisogna parlare di lui, Marco. Perché c’è. E nessuna legge può girarci intorno. Vale la pena anche sparare sul Cristallo rosso, come dici tu. Perché ridurre la nostra esistenza al «taglia e cuci» è un po’poco, no? Di che discutiamo io e te, se dovessimo rassegnarci a quello? Perché io dovrei fare il giornalista e tu il politico? E perché un medico scegliere il suo mestiere? Possiamo volere sussultare ancora, sentire qualcosa facendo il nostro lavoro, pensare alla possibilità di una diversità più adatta alla nostra natura e al nostro cuore? Non mi sembra poco nemmeno la solitudine cui dovremmo lasciare due ragazzi con un dramma grande così. Scusami se non mi rassegno. Ma è per tentare una risposta a quella solitudine che serve una legge, che ha un senso costruire ospedali, trovare risposte ai problemi. Sì, anche parlare della legge 194 sull’aborto e della possibilità di cambiarla. Proviamo a riparlarne partendo da quella foto, da quei due fidanzati lasciati allo sbando, da parole come le tue che non la pensi come me eppure provi ad ascoltare, a guardare e capire. Ripartiamo da qui.
Franco Bechis