Il Casinò di San Referendum
Legge elettorale? No, ancora? Referendum? No, ancora? Non pare vero. Passano gli anni, cambiano le mode, perfino i papi, ma il sistema politico italiano non riesce a liberarsi da quest’incubo. E per quanto sgradevoli ci possano sembrare le repliche, è di nuovo sulla speranza di un successo referendario che deve puntare chi ha a cuore il buon governo e la stabilità delle istituzioni. Certo, un mucchietto di fiches sul tappeto verde al Casinò di Sanremo sarebbe un investimento più sicuro, vista la devastazione subita nel frattempo dall’istituto referendario. Ma tant’è. Sono passati 14 anni dal famoso referendum Segni che aprì le porte al maggioritario e, grazie alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, al bipolarismo. E 8 anni dal referendum del 1999 (poi malamente replicato nel 2000) che per un pugno di voti mancò il quorum necessario per dare al paese un sistema maggioritario vero. Lo ricordate, no? Poche decine di migliaia di voti non espressi annullarono la volontà di una maggioranza schiacciante di elettori. E al danno si aggiunse la beffa: se le liste fossero state epurate da presunti italiani residenti all’estero, in realtà morti e sepolti da anni, la parte proporzionale sarebbe stata tranquillamente abolita. E con essa il meccanismo che definiva i rapporti tra i partiti all’interno delle alleanze, minando alla base lo schema bipolare su cui si reggeva il confronto fra maggioranza e opposizione. Il bisogno di dare visibilità alla propria lista costringeva infatti alla rissa continua le forze minori, che altrimenti rischiavano di essere liquidate prima dalla scena mediatica e poi dallo spoglio elettorale: fu così che due anni di “verifica” quotidiana ridussero allo stremo delle forze di un governo, quello retto da Berlusconi, che pure aveva conquistato una maggioranza amplissima nei due rami del Parlamento.
Non si poteva andare avanti col “mattarellum”, no. Ma il rimedio che il centrodestra escogitò, spinto da Casini, fu peggiore del male: il calderoliano “porcellum”, un accrocco che da un lato ha provocato l’ulteriore polverizzazione del sistema dei partiti, dall’altro annullato il potere degli elettori nella scelta dei parlamentari (essendo del tutto ininfluente la qualità dei candidati sull’esito del voto), e infine – per l’assurdo e inoperante premio di maggioranza su base regionale imposto dal Quirinale per l’elezione del Senato – impedisce al governo in carica di contare su una maggioranza stabile in un ramo del Parlamento.
Il confronto che ferve in queste ore fra Governo e opposizione, fra partiti maggiori e cespugli, per evitare il referendum, e magari convincere i promotori a rinviare di un anno la raccolta delle firme che si avvierà il 24 aprile, è una duplice finzione. Da un lato serve soltanto a dare un po’ di respiro alla maggioranza asmatica guidata da Prodi e a far guadagnare tempo all’opposizione per ricucire la lacerazione con l’Udc. Dall’altro è un modo per aggirare il ricatto dei piccoli partiti del centrosinistra che minacciano la crisi se una legge elettorale che li salvaguardi, quale che sia, non verrà approvata. Prodi ci prova, Ds e Dl invece rilanciano e chiedono il ritorno all’uninominale e il doppio turno e un fenomenale sbarramento al 5%. Come no? Tutti sanno che un compromesso è impossibile, che nessun partitino rinuncerà mai alla sua piccola ma sicura esistenza, al suo gramo ma confortevole orticello di guerra, in cambio di un futuro incerto all’interno di una casa più grande con vista sulla prateria elettorale. Né gli si può chiedere questo sacrificio quando l’incertezza sulle responsabilità presenti e sul proprio ruolo futuro governa (si fa per dire) il comportamento dei partiti maggiori dell’uno schieramento e dell’altro. Si farà il partito democratico? Chi lo sa, e come, e con chi, e quando mai. Si farà il partito delle libertà? Idem. Mancano strategie, idee, forse anche idealità, le ideologie sono defunte, predomina il tatticismo. I Ds affrontano una scissione, la Margherita forse si ricomporrà in un’aula di Tribunale, Forza Italia assiste allo scontro buffo fra i moschettieri del Re e quelli del Cardinale (che però sono una persona sola) raccolti nel partito e nei circoli, An non sa che pesci pigliare in attesa che il suo leader trovi la canna (da pesca). E che devono fare un Mastella, un Boselli, un Di Pietro? Si affidano a Calderoli, com’è giusto. Una legge magari si farà, e sarà un peggioramento di quella attuale, ma non servirà a impedire il referendum.
Se davvero qualcuno volesse la riforma dovrebbe proporre qualcosa di accettabile per quasi tutti ma non per tutti. Il sistema spagnolo è l’unica mediazione possibile in tal senso: conserva la proporzionale, ma ha un effetto maggioritario; mantiene ai partiti la scelta dei candidati ma, vista la piccola dimensione delle circoscrizioni che porta all’elezione di tre, quattro candidati in media, ad eccezione delle città metropolitane, costringe a sceglierli con criterio; garantisce un diritto di tribuna, almeno nelle poche circoscrizioni maggiori, a tutti i soggetti significativi; non mette fuori gioco i gruppi a forte rappresentanza locale (ad esempio la Lega e l’Udeur); e soprattutto favorisce l’aggregazione in partiti più grandi. Semplice no? Sì, troppo semplice per la partitocrazia italiana, rifluita da un sistema consociativo a uno feudale, che si autoconserva grazie al complicato e complice ingranaggio di un sistema che impedisce al tempo stesso di governare e di fare opposizione. E allora, nonostante ne siamo già usciti più volte con le tasche vuote, tutti di corsa al Casinò referendario a ritentare la sorte.
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