La Forza e la Democrazia
Certo, meglio esportare la democrazia che facilitare le dittature. Come gli Stati Uniti erano abituati a fare negli anni sessanta e settanta, in Grecia o in Cile. Certo, meglio esportare la democrazia che combattere soltanto le dittature di destra come quella di Somoza o di Rezha Palhavi e cercare compromessi con quelle comuniste, come gli Stati Uniti si abituarono a fare all’epoca della presidenza Carter, alla fine degli anni settanta. Potremmo liquidare con una battuta il disastro iracheno o il puzzle afgano, e rassegnarci all’idea che essere una provincia dell’Impero liberale è sicuramente meglio che essere sovrani al di fuori di esso; e magari compiacerci perché abbiamo saputo sconfiggere chi negli anni di piombo seppe rovinarci la vita pur affrontando in modo solo virtuale l’eterno dilemma se sia preferibile vivere in miseria economica e morale sotto il totalitarismo comunista o vivere in miseria economica e morale sotto un’autocrazia di destra.
Ma il fatto è che tutti gli schemi sono saltati da quando la religione è (ri)diventata instrumentum regni, e per giunta una religione, quella islamica, che viene interpretata dalla maggioranza dei suoi fedeli in modo pervasivo, arcaico, militarista. Non aiutano più le letture marxiste fondate sulla robustezza della struttura economica e quelle liberali fondate sulla tradizione e la cultura. La guerra non è più soltanto questione di frontiere, armamenti ed eserciti ma di metropolitane, controlli di sicurezza e intelligence. Volenti o nolenti la democrazia, intesa come autogoverno e contenimento pubblico delle fazioni estremiste, da affare di Stato è diventata affare di politica internazionale.
Ecco perché la cosiddetta esportazione della democrazia non è un ennesimo incidente di percorso dell’idealismo wilsoniano, ma una necessità strategica cui l’Occidente non può rinunciare, nonostante i primi fallimenti registrati. L’importante è non fare gli struzzi, imparare dagli errori, riconoscere che il momento elettorale è soltanto uno e non il più importante dei passaggi obbligati in un quadro di democratizzazione (come il successo di Hamas in Palestina emblematizza).
Vale forse la pena rileggere il saggio “Dittature e Doppio Standard”, pubblicato nel 1979 su Commentary diretto da Norman Podhorez, che avrebbe portato Jeane Kirkpatrick, a quel tempo democratica, all’ufficio di ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite sotto la presidenza di Ronald Reagan. Come è noto Kirpatrick accusava la presidenza Carter di sudditanza psicologica nei confronti dei regimi comunisti e di sostenere senza criterio tutti i movimenti di opposizione alle autocrazie di destra, come quelle di Somoza in Nicaragua e di Reza Palhavi in Persia, nonostante le buone relazioni con gli Usa. Gli argomenti di Kirpatrick erano solidi: “Parlando in generale, le autocrazie tradizionali tollerano iniquità sociali, brutalità e povertà, mentre le autocrazie rivoluzionarie le generano”. E mettendo a confronto i governi della Cina popolare con quello di Taiwan, della Corea del Nord con quello del Sud, e i regimi comunisti del Vietnam, del Laos e della Cambogia con quelli precedenti, notava che era oltre ogni ragionevole dubbio il fatto che i primi fossero molto più repressivi dei secondi. Partendo da questa analisi Jeane Kirkpatrick svolse un ruolo essenziale nella definizione della dura politica anti-Urss di Reagan, fatta di guerre stellari e affermazione dei diritti umani, di euromissili e di sostegno all’emigrazione ebraica, che avrebbe nel giro di pochi anni portato al tracollo del regime sovietico. Reagan fu accusato di dare troppo spazio ai principi morali e di venir meno alla tradizionale dottrina Kennan del “containment”, cioè della limitazione della potenza sovietica entro i confini di Yalta, che era stata la stella polare di Henry Kissinger e di tutti i “realisti”.
Ma ora ci interessa soprattutto la parte del saggio in cui si discute proprio dell’esportazione della democrazia, e dei suoi limiti. John Stuart Mill nel suo saggio sul governo rappresentativo ne descriveva le tre condizioni fondamentali: “Primo, bisogna che la popolazione lo voglia; secondo, che voglia e sia abbastanza abile da fare quanto è necessario per conservarlo; terzo che voglia e sia capace di adempiere ai doveri e svolgere le funzioni che un governo rappresentativo le impone”. In aggiunta a tutto questo, scrive Kirkpatrick, occorrono istituzioni forti per incanalare e contenere il conflitto e strumenti di partecipazione non ufficiali che possano aggregare i diversi interessi e opinioni presenti nella società, limarne le asperità, elaborare compromessi. Se questo manca sarà molto difficile per il Governo riuscire a trasferire le richieste popolari in una politica pubblica. La stessa società americana, che pure è presa universalmente ad esempio “ha costruito la sua democrazia attraverso una guerra d’indipendenza, un primo fallimento costituzionale, una guerra civile e un lungo processo di graduale acquisizione del diritto di voto che ha infine portato a un governo costituzionale democratico”.
Per quanto la politica estera degli Usa nei confronti di molte dittature anticomuniste sia risultata spesso brutalmente indifferente ai diritti umani, la conseguenza che Kirpatrick traeva non era però quella di abbandonare al loro destino i popoli soggetti alle dittature. Occorreva piuttosto impedire che in loro soccorso giungessero, magari con l’appoggio degli Usa (o, oggi, dell’Europa), movimenti rivoluzionari che tutto avrebbero fatto tranne costruire quei presupposti minimi di libertà individuale e organizzazione della società civile che consentono il progressivo sviluppo di una società democratica.
Sotto la presidenza Reagan avvenne dunque un cambiamento fondamentale nei rapporti con l’Urss e col blocco sovietico. Come ha scritto Ian Buruma, lo storico anglo-olandese che ha coniato il termine “occidentalismo” per indicare l’avversione ovunque diffusa alla cosiddetta pax americana, “una volta che gli americani decisero di appoggiare la democrazia anziché l’oppressione in nome dell’anticomunismo, i democratici ne trassero profitto e il divario fra idealismo americano e interesse personale nazionale si restrinse”.
L’attacco dell’11 settembre, grazie anche alle riflessioni dei neoconservatori americani, in buona parte eredi diretti della lezione di Jeane Kirkpatrick (che faceva parte dell’American Enterprise Institute) ha ancora una volta portato il governo degli Usa a ribaltare la strategia verso il totalitarismo, che oggi ha assunto le vesti arabescate dell’Islam politico. Significativo è l’esordio del documento firmato dalla Casa Bianca il 17 settembre 2002 e intitolato ‘La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Unititi d’America’: “La grande battaglia del XX secolo fra la libertà e il totalitarismo si è conclusa con una vittoria decisiva delle forze per la libertà – e un unico modello possibile per il successo di una nazione: libertà, democrazia e libera impresa. Nel XXI secolo solo le nazioni che condividono l’impegno per la difesa dei diritti umani fondamentali e per garantire le libertà politiche ed economiche saranno in grado di sviluppare le potenzialità dei loro popoli e assicurare loro un futuro prospero. Ovunque le persone vogliono poter parlare liberamente, scegliere da chi vogliono essere governati, avere una propria fede, educare i propri ragazzi – uomini e donne -, possedere beni e godere dei benefici del proprio lavoro. Questi valori di libertà sono giusti e veri per ogni persona, in ogni società, e il dovere di difendere questi valori contro i loro nemici è il comune appello da parte tutti i popoli amanti della libertà in ogni parte del mondo e in ogni età”.
Certo, la retorica americana può suonare falsa alle disincantate orecchie europee, i cui timpani sono stati lacerati da troppe esplosioni, ed è ha ragione Buruma quando osserva che l’’occidentalismo’ “è nato in Europa come reazione all’affidamento europeo alla scienza, all’Illuminismo, e alla separazione fra chiesa e stato, specialmente a quest’ultima. Gli occidentalisti vedono l’Occidente moderno come una società tecnologica senza anima umana”. Del resto l’eco di queste posizioni risuona talvolta nei documenti ufficiali della stessa Chiesa Cattolica e molto più di frequente nella predicazione di molti cristiani affascinati dai movimenti di resistenza contro il capitalismo e la modernizzazione.
Ma oggi la distinzione amico-nemico, su cui si è sempre fondata la politica estera delle grandi potenze, non è più chiara come in passato.
Lyndon Johnson, il vicepresidente democratico che nel 1963 succedette a John F. Kennedy, sintetizzò perfettamente la strategia realista della sua epoca riferendosi a Somoza, il dittatore del Nicaragua: “Sappiamo che è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Battuta ripresa negli anni ottanta per applicarla a un potente alleato degli Usa (e dell’Urss) nel contenimento dell’Iran khomeynista, il Rais iracheno Saddam Hussein.
Ma oggi cosa pensare ad esempio della famiglia reale saudita? Da una parte si proclama alleato fedele dell’Occidente e degli Usa e intreccia relazioni economiche strettissime con gli investitori internazionali, dall’altro accorda sempre più potere alle autorità religiose wahabite che incarnano la lettura più estremista del Corano e mobilitano milioni di persone alla guerra santa contro gli infedeli occidentali ed ebrei.
I figli di puttana sono sempre più tali, ma sempre meno “nostri”. La forza e la democrazia servono più di prima. Dobbiamo imparare a usare meglio la forza della democrazia.
Questo articolo sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista Charta Minuta
2 Comments:
Grandissimo Taradash, la vedrei bene nella redazione della rivista Ideazione!
A volte la tua bravura nello scrivere mi fà paura
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