18.4.07

La Forza e la Democrazia


Certo, meglio esportare la democrazia che facilitare le dittature. Come gli Stati Uniti erano abituati a fare negli anni sessanta e settanta, in Grecia o in Cile. Certo, meglio esportare la democrazia che combattere soltanto le dittature di destra come quella di Somoza o di Rezha Palhavi e cercare compromessi con quelle comuniste, come gli Stati Uniti si abituarono a fare all’epoca della presidenza Carter, alla fine degli anni settanta. Potremmo liquidare con una battuta il disastro iracheno o il puzzle afgano, e rassegnarci all’idea che essere una provincia dell’Impero liberale è sicuramente meglio che essere sovrani al di fuori di esso; e magari compiacerci perché abbiamo saputo sconfiggere chi negli anni di piombo seppe rovinarci la vita pur affrontando in modo solo virtuale l’eterno dilemma se sia preferibile vivere in miseria economica e morale sotto il totalitarismo comunista o vivere in miseria economica e morale sotto un’autocrazia di destra.
Ma il fatto è che tutti gli schemi sono saltati da quando la religione è (ri)diventata instrumentum regni, e per giunta una religione, quella islamica, che viene interpretata dalla maggioranza dei suoi fedeli in modo pervasivo, arcaico, militarista. Non aiutano più le letture marxiste fondate sulla robustezza della struttura economica e quelle liberali fondate sulla tradizione e la cultura. La guerra non è più soltanto questione di frontiere, armamenti ed eserciti ma di metropolitane, controlli di sicurezza e intelligence. Volenti o nolenti la democrazia, intesa come autogoverno e contenimento pubblico delle fazioni estremiste, da affare di Stato è diventata affare di politica internazionale.
Ecco perché la cosiddetta esportazione della democrazia non è un ennesimo incidente di percorso dell’idealismo wilsoniano, ma una necessità strategica cui l’Occidente non può rinunciare, nonostante i primi fallimenti registrati. L’importante è non fare gli struzzi, imparare dagli errori, riconoscere che il momento elettorale è soltanto uno e non il più importante dei passaggi obbligati in un quadro di democratizzazione (come il successo di Hamas in Palestina emblematizza).
Vale forse la pena rileggere il saggio “Dittature e Doppio Standard”, pubblicato nel 1979 su Commentary diretto da Norman Podhorez, che avrebbe portato Jeane Kirkpatrick, a quel tempo democratica, all’ufficio di ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite sotto la presidenza di Ronald Reagan. Come è noto Kirpatrick accusava la presidenza Carter di sudditanza psicologica nei confronti dei regimi comunisti e di sostenere senza criterio tutti i movimenti di opposizione alle autocrazie di destra, come quelle di Somoza in Nicaragua e di Reza Palhavi in Persia, nonostante le buone relazioni con gli Usa. Gli argomenti di Kirpatrick erano solidi: “Parlando in generale, le autocrazie tradizionali tollerano iniquità sociali, brutalità e povertà, mentre le autocrazie rivoluzionarie le generano”. E mettendo a confronto i governi della Cina popolare con quello di Taiwan, della Corea del Nord con quello del Sud, e i regimi comunisti del Vietnam, del Laos e della Cambogia con quelli precedenti, notava che era oltre ogni ragionevole dubbio il fatto che i primi fossero molto più repressivi dei secondi. Partendo da questa analisi Jeane Kirkpatrick svolse un ruolo essenziale nella definizione della dura politica anti-Urss di Reagan, fatta di guerre stellari e affermazione dei diritti umani, di euromissili e di sostegno all’emigrazione ebraica, che avrebbe nel giro di pochi anni portato al tracollo del regime sovietico. Reagan fu accusato di dare troppo spazio ai principi morali e di venir meno alla tradizionale dottrina Kennan del “containment”, cioè della limitazione della potenza sovietica entro i confini di Yalta, che era stata la stella polare di Henry Kissinger e di tutti i “realisti”.
Ma ora ci interessa soprattutto la parte del saggio in cui si discute proprio dell’esportazione della democrazia, e dei suoi limiti. John Stuart Mill nel suo saggio sul governo rappresentativo ne descriveva le tre condizioni fondamentali: “Primo, bisogna che la popolazione lo voglia; secondo, che voglia e sia abbastanza abile da fare quanto è necessario per conservarlo; terzo che voglia e sia capace di adempiere ai doveri e svolgere le funzioni che un governo rappresentativo le impone”. In aggiunta a tutto questo, scrive Kirkpatrick, occorrono istituzioni forti per incanalare e contenere il conflitto e strumenti di partecipazione non ufficiali che possano aggregare i diversi interessi e opinioni presenti nella società, limarne le asperità, elaborare compromessi. Se questo manca sarà molto difficile per il Governo riuscire a trasferire le richieste popolari in una politica pubblica. La stessa società americana, che pure è presa universalmente ad esempio “ha costruito la sua democrazia attraverso una guerra d’indipendenza, un primo fallimento costituzionale, una guerra civile e un lungo processo di graduale acquisizione del diritto di voto che ha infine portato a un governo costituzionale democratico”.
Per quanto la politica estera degli Usa nei confronti di molte dittature anticomuniste sia risultata spesso brutalmente indifferente ai diritti umani, la conseguenza che Kirpatrick traeva non era però quella di abbandonare al loro destino i popoli soggetti alle dittature. Occorreva piuttosto impedire che in loro soccorso giungessero, magari con l’appoggio degli Usa (o, oggi, dell’Europa), movimenti rivoluzionari che tutto avrebbero fatto tranne costruire quei presupposti minimi di libertà individuale e organizzazione della società civile che consentono il progressivo sviluppo di una società democratica.
Sotto la presidenza Reagan avvenne dunque un cambiamento fondamentale nei rapporti con l’Urss e col blocco sovietico. Come ha scritto Ian Buruma, lo storico anglo-olandese che ha coniato il termine “occidentalismo” per indicare l’avversione ovunque diffusa alla cosiddetta pax americana, “una volta che gli americani decisero di appoggiare la democrazia anziché l’oppressione in nome dell’anticomunismo, i democratici ne trassero profitto e il divario fra idealismo americano e interesse personale nazionale si restrinse”.
L’attacco dell’11 settembre, grazie anche alle riflessioni dei neoconservatori americani, in buona parte eredi diretti della lezione di Jeane Kirkpatrick (che faceva parte dell’American Enterprise Institute) ha ancora una volta portato il governo degli Usa a ribaltare la strategia verso il totalitarismo, che oggi ha assunto le vesti arabescate dell’Islam politico. Significativo è l’esordio del documento firmato dalla Casa Bianca il 17 settembre 2002 e intitolato ‘La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Unititi d’America’: “La grande battaglia del XX secolo fra la libertà e il totalitarismo si è conclusa con una vittoria decisiva delle forze per la libertà – e un unico modello possibile per il successo di una nazione: libertà, democrazia e libera impresa. Nel XXI secolo solo le nazioni che condividono l’impegno per la difesa dei diritti umani fondamentali e per garantire le libertà politiche ed economiche saranno in grado di sviluppare le potenzialità dei loro popoli e assicurare loro un futuro prospero. Ovunque le persone vogliono poter parlare liberamente, scegliere da chi vogliono essere governati, avere una propria fede, educare i propri ragazzi – uomini e donne -, possedere beni e godere dei benefici del proprio lavoro. Questi valori di libertà sono giusti e veri per ogni persona, in ogni società, e il dovere di difendere questi valori contro i loro nemici è il comune appello da parte tutti i popoli amanti della libertà in ogni parte del mondo e in ogni età”.
Certo, la retorica americana può suonare falsa alle disincantate orecchie europee, i cui timpani sono stati lacerati da troppe esplosioni, ed è ha ragione Buruma quando osserva che l’’occidentalismo’ “è nato in Europa come reazione all’affidamento europeo alla scienza, all’Illuminismo, e alla separazione fra chiesa e stato, specialmente a quest’ultima. Gli occidentalisti vedono l’Occidente moderno come una società tecnologica senza anima umana”. Del resto l’eco di queste posizioni risuona talvolta nei documenti ufficiali della stessa Chiesa Cattolica e molto più di frequente nella predicazione di molti cristiani affascinati dai movimenti di resistenza contro il capitalismo e la modernizzazione.
Ma oggi la distinzione amico-nemico, su cui si è sempre fondata la politica estera delle grandi potenze, non è più chiara come in passato.
Lyndon Johnson, il vicepresidente democratico che nel 1963 succedette a John F. Kennedy, sintetizzò perfettamente la strategia realista della sua epoca riferendosi a Somoza, il dittatore del Nicaragua: “Sappiamo che è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Battuta ripresa negli anni ottanta per applicarla a un potente alleato degli Usa (e dell’Urss) nel contenimento dell’Iran khomeynista, il Rais iracheno Saddam Hussein.
Ma oggi cosa pensare ad esempio della famiglia reale saudita? Da una parte si proclama alleato fedele dell’Occidente e degli Usa e intreccia relazioni economiche strettissime con gli investitori internazionali, dall’altro accorda sempre più potere alle autorità religiose wahabite che incarnano la lettura più estremista del Corano e mobilitano milioni di persone alla guerra santa contro gli infedeli occidentali ed ebrei.
I figli di puttana sono sempre più tali, ma sempre meno “nostri”. La forza e la democrazia servono più di prima. Dobbiamo imparare a usare meglio la forza della democrazia.

Questo articolo sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista Charta Minuta

13.4.07

Tesoretto


Produzione industriale al ribasso in febbraio: 0,7% tendenziale, 0,5% mese su mese. Ma l’extra-gettito fiscale, il cosiddetto “tesoretto”, di cui oggi Prodi spiega al Corriere la destinazione, giusto alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative, aumenta: +7,1% nel primo bimestre2007, con una punta di +16,3% per l’Ires, l’imposta sul reddito delle società. Che ci sia una relazione fra le due notizie?

Il Casinò di San Referendum


Legge elettorale? No, ancora? Referendum? No, ancora? Non pare vero. Passano gli anni, cambiano le mode, perfino i papi, ma il sistema politico italiano non riesce a liberarsi da quest’incubo. E per quanto sgradevoli ci possano sembrare le repliche, è di nuovo sulla speranza di un successo referendario che deve puntare chi ha a cuore il buon governo e la stabilità delle istituzioni. Certo, un mucchietto di fiches sul tappeto verde al Casinò di Sanremo sarebbe un investimento più sicuro, vista la devastazione subita nel frattempo dall’istituto referendario. Ma tant’è. Sono passati 14 anni dal famoso referendum Segni che aprì le porte al maggioritario e, grazie alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, al bipolarismo. E 8 anni dal referendum del 1999 (poi malamente replicato nel 2000) che per un pugno di voti mancò il quorum necessario per dare al paese un sistema maggioritario vero. Lo ricordate, no? Poche decine di migliaia di voti non espressi annullarono la volontà di una maggioranza schiacciante di elettori. E al danno si aggiunse la beffa: se le liste fossero state epurate da presunti italiani residenti all’estero, in realtà morti e sepolti da anni, la parte proporzionale sarebbe stata tranquillamente abolita. E con essa il meccanismo che definiva i rapporti tra i partiti all’interno delle alleanze, minando alla base lo schema bipolare su cui si reggeva il confronto fra maggioranza e opposizione. Il bisogno di dare visibilità alla propria lista costringeva infatti alla rissa continua le forze minori, che altrimenti rischiavano di essere liquidate prima dalla scena mediatica e poi dallo spoglio elettorale: fu così che due anni di “verifica” quotidiana ridussero allo stremo delle forze di un governo, quello retto da Berlusconi, che pure aveva conquistato una maggioranza amplissima nei due rami del Parlamento.
Non si poteva andare avanti col “mattarellum”, no. Ma il rimedio che il centrodestra escogitò, spinto da Casini, fu peggiore del male: il calderoliano “porcellum”, un accrocco che da un lato ha provocato l’ulteriore polverizzazione del sistema dei partiti, dall’altro annullato il potere degli elettori nella scelta dei parlamentari (essendo del tutto ininfluente la qualità dei candidati sull’esito del voto), e infine – per l’assurdo e inoperante premio di maggioranza su base regionale imposto dal Quirinale per l’elezione del Senato – impedisce al governo in carica di contare su una maggioranza stabile in un ramo del Parlamento.
Il confronto che ferve in queste ore fra Governo e opposizione, fra partiti maggiori e cespugli, per evitare il referendum, e magari convincere i promotori a rinviare di un anno la raccolta delle firme che si avvierà il 24 aprile, è una duplice finzione. Da un lato serve soltanto a dare un po’ di respiro alla maggioranza asmatica guidata da Prodi e a far guadagnare tempo all’opposizione per ricucire la lacerazione con l’Udc. Dall’altro è un modo per aggirare il ricatto dei piccoli partiti del centrosinistra che minacciano la crisi se una legge elettorale che li salvaguardi, quale che sia, non verrà approvata. Prodi ci prova, Ds e Dl invece rilanciano e chiedono il ritorno all’uninominale e il doppio turno e un fenomenale sbarramento al 5%. Come no? Tutti sanno che un compromesso è impossibile, che nessun partitino rinuncerà mai alla sua piccola ma sicura esistenza, al suo gramo ma confortevole orticello di guerra, in cambio di un futuro incerto all’interno di una casa più grande con vista sulla prateria elettorale. Né gli si può chiedere questo sacrificio quando l’incertezza sulle responsabilità presenti e sul proprio ruolo futuro governa (si fa per dire) il comportamento dei partiti maggiori dell’uno schieramento e dell’altro. Si farà il partito democratico? Chi lo sa, e come, e con chi, e quando mai. Si farà il partito delle libertà? Idem. Mancano strategie, idee, forse anche idealità, le ideologie sono defunte, predomina il tatticismo. I Ds affrontano una scissione, la Margherita forse si ricomporrà in un’aula di Tribunale, Forza Italia assiste allo scontro buffo fra i moschettieri del Re e quelli del Cardinale (che però sono una persona sola) raccolti nel partito e nei circoli, An non sa che pesci pigliare in attesa che il suo leader trovi la canna (da pesca). E che devono fare un Mastella, un Boselli, un Di Pietro? Si affidano a Calderoli, com’è giusto. Una legge magari si farà, e sarà un peggioramento di quella attuale, ma non servirà a impedire il referendum.
Se davvero qualcuno volesse la riforma dovrebbe proporre qualcosa di accettabile per quasi tutti ma non per tutti. Il sistema spagnolo è l’unica mediazione possibile in tal senso: conserva la proporzionale, ma ha un effetto maggioritario; mantiene ai partiti la scelta dei candidati ma, vista la piccola dimensione delle circoscrizioni che porta all’elezione di tre, quattro candidati in media, ad eccezione delle città metropolitane, costringe a sceglierli con criterio; garantisce un diritto di tribuna, almeno nelle poche circoscrizioni maggiori, a tutti i soggetti significativi; non mette fuori gioco i gruppi a forte rappresentanza locale (ad esempio la Lega e l’Udeur); e soprattutto favorisce l’aggregazione in partiti più grandi. Semplice no? Sì, troppo semplice per la partitocrazia italiana, rifluita da un sistema consociativo a uno feudale, che si autoconserva grazie al complicato e complice ingranaggio di un sistema che impedisce al tempo stesso di governare e di fare opposizione. E allora, nonostante ne siamo già usciti più volte con le tasche vuote, tutti di corsa al Casinò referendario a ritentare la sorte.

11.4.07

Abu Omar. Quanta confusione. Ma il governo B. ci ha messo del suo.


Quanta confusione. L’unica cosa chiara l’ha scritta l’Avvocatura dello Stato nel suo ricorso davanti alla Corte Costituzionale contro il rinvio a giudizio dell’ex direttore del Sismi Nicola Pollari. Dove si descrive “il sensibile danno” recato dall’inchiesta dei magistrati milanesi sul sequestro Cia del presunto terrorista Abu Omar “all’immagine del governo italiano, soprattutto nella delicatissima e vitale materia della collaborazione fra Stati nel campo dell’antiterrorismo”. E si sostiene che “la divulgazione dei risultati istruttori espone i Servizi italiani al rischio concreto di ‘ostracismo informativo’ da parte degli omologhi stranieri”, anche perché i Pm milanesi hanno avuto “un atteggiamento che appare teso, costi quel che costi, all’apprendimento di notizie coperte dal segreto di Stato”.
Il segreto di Stato, ecco il punto. Il governo Berlusconi l’aveva apposto oppure no? Secondo noi avrebbe dovuto farlo, perché quello della collaborazione fra intelligence alleate nella lotta al terrorismo è uno dei pochissimi casi in cui è effettivamente giustificato. Ma il ministro Di Pietro oggi dice che Milano ha agito “dopo aver chiesto se quelle indagini potevano essere svolte e dopo che nessuno aveva opposto il veto. Perche' la verita' sul segreto di Stato bisogna dirla tutta: non esiste alcun atto scritto di apposizione del segreto”.
Se Di Pietro ha ragione bisogna riconoscere che il Governo di allora si è mosso con ingenuità o superficialità. Invece di giurare e spergiurare di nulla sapere e nulla pensare prima attraverso il ministro dei rapporti col Parlamento Carlo Giovanardi (gennaio 2004) poi attraverso una nota di Palazzo Chigi (11 maggio 2006) subito seguita da un’analoga assicurazione del ministro della Difesa Antonio Martino che il 12 maggio ribadisce "l'assoluta estraneità del Governo e del Sismi rispetto al sequestro di Abu Omar, rapimento che non coinvolge ad alcun titolo nè l'esecutivo nè il Servizio, nè direttamente nè indirettamente”, il Governo avrebbe dovuto fare rivendicare il suo ruolo in un’operazione volta a scongiurare nuovi attentati terroristici islamici contro l’Europa o gli Usa. Magari, secondo la prassi britannica, trincerandosi dietro un no comment e, secondo quella nostrana, dietro il segreto di Stato. L’unica cosa che non doveva consentire era di lasciare mano libera a dei magistrati che sono riusciti perfino a intercettare le telefonate fra il capo dei servizi segreti e i suoi più stretti collaboratori. Trasformando, come spesso capita da noi, una cosa molto seria in una farsa all’italiana.

Stelle su Teheran. Ma non illudiamoci, Amadinejad non è Hitler.


Ahmadinejad è equanime: dopo aver distribuito stelle di demerito agli studenti che avevano manifestato il loro dissenso nei suoi confronti all’Università di Teheran, ha deciso di estendere il privilegio anche ai professori. Una stella, e sei ammonito; se precario, non avrai il posto. Due stelle e ti tagliano i fondi per la ricerca. Tre stelle e sei licenziato. Alla terza stella invece gli studenti vengono espulsi dall’Università. Il problema peggiore, per gli studenti come per i professori, è che non si sa che fine fanno dopo.
E’ la “rivoluzione culturale” del premier iraniano, scrive oggi sulla Stampa Farian Sabahi, una nota giornalista e storica iraniana. Ma - va ricordato a Luciano Violante e ai diessini, affinché nella loro “bulimia del ripensamento” non si facciano mancare nulla - la situazione non era diversa quando il presidente della camera firmava una condiscendente prefazione al libro del “riformatore” Khatami. La stessa Sabahi spiegava tre anni fa al Manifesto che “in questi anni Khatami ha deluso un po' tutti: nel luglio del 1999 non ha difeso gli studenti, non ha detto una parola per liberare gli intellettuali e i giornalisti finiti in carcere, colpevoli soltanto di avere espresso la loro opinione”. Fra gli altri Mohsen Kadivar, colpevole di aver detto «il governo del clero non è compatibile con la democrazia perché se la gente vota a favore di una determinata misura, non è detto che poi questa misura venga messa in pratica perché a decidere sarà sempre il Rahbar, il leader supremo, vale a dire l'ayatollah Ali Khamenei». Osservava Farian Sabahi che Kadivar, amico e politicamente vicino a Khatami, era stato “invogliato a esprimersi in questi termini per le promesse di riforma del presidente Khatami” e aveva scontato, per essersi espresso in questo modo, nove mesi di carcere.
Ecco il punto. L’Occidente, o almeno una sua parte consistente, fece allora l’errore ottimistico di distinguere fra Kathami e la teocrazia, come se un regime politico che fonda la sua legittimazione sull’interpretazione di un testo sacro fosse compatibile con qualcosa di simile alla democrazia liberale. Oggi non vorremmo che venisse fatto l’errore opposto: che si identificasse in Ahamadinejad il problema dell’Iran e della sua evoluzione militarista e nuclearista. Ahmadinejad si comporta come Hitler, è pericoloso come Hitler, ma non ha gli stessi poteri di Hitler. Liquidarlo, se mai ci si provasse (ma ci si prova?), non sarà sufficiente. Il problema è e resta la teocrazia, il governo degli ayatollah, la shari’a, la strumentalizzazione politica della religione islamica, il virus quaedista che contamina, si estende e si rafforza.
Distinguere fra Ahmadijad e la teocrazia è una nuova versione dell’ottimismo occidentale, opposta a quella precedente, ma altrettanto consolatoria e vile.

10.4.07

Non mettiamo Abele contro Caino (né l'Europa contro gli Usa).


Non s’era mai visto. Una marcia promossa da Marco Pannella per costringere il Governo Prodi a mantenere i suoi impegni e promuovere davanti all’Onu una risoluzione che porti alla sospensione della pena di morte è diventata, per un gioco di prestigio dei media e del Governo stesso, una marcia governativa per imporre al Papa di prendere posizione contro la pena di morte. Come se dipendesse dal Vaticano convincere Cina, Iran, i paesi arabi, gli stati comunisti e gli USA della necessità di rivedere le proprie convinzioni. Lo stesso Pannella lo ha ricordato oggi a se stesso e a Massimo D’Alema.
E tuttavia. Già il fatto di leggere, negli elenchi degli stati che conservano la pena capitale diffusi dagli abolizionisti il nome degli Stai Uniti, la più grande democrazia liberale del mondo, accanto a quello di regimi dittatoriali che si servono dei tribunali, dei giudici e dei boia per soffocare sul nascere ogni soffio di libertà, suscita sconcerto, come ha giustamente notato Dino Cofrancesco. Certo, la pena di morte è un male in sé per chi crede doveroso imporre allo Stato dei limiti invalicabili sulla vita individuale, o per chi non ha – a ragione – una fiducia mistica nella giustizia così da ritenere che la verità giudiziaria coincida necessariamente con quella storica, o per chi è convinto che ognuno debba avere la possibilità di ricostruire la propria identità morale anche dopo la più abietta delle azioni. Forse sotto questo profilo è ancora più grave che la pena di morte sia contemplata da un sistema dove vige la rule of law piuttosto che da un regime retto sull’arbitrio.
Ma, se vogliamo dare più efficiacia alla campagna abolizionista, dovremmo essere in grado di differenziare la strategia d’azione e, soprattutto, di comunicazione contro la pena di morte in funzione del sistema di garanzie di cui gode l’individuo in generale e l’imputato in particolare. Se l’errore giudiziario è possibile, e neppure infrequente, perfino laddove, negli Usa, l’imputato può essere condannato solo se la sua colpevolezza sia provata “oltre ogni ragionevole dubbio”, figuriamoci nei paesi dove questo principio è sconosciuto. E dove vengono puniti con la morte reati che altrove comporterebbero pene minori o addirittura nessuna pena (per esempio, sotto il regime della shari’a, in caso di adulterio femminile o di bestemmia, o di omosessualità).
Non è questione di contrapporre Abele a Caino come fanno i revenant della pena di morte: la condanna del reo è sempre successiva al reato, e ogni tentativo di dimostrare l’effetto dissuasivo della pena capitale è fallito. Le vittime dei reati si difendono meglio mettendo in questione le teorie sociali che tendono a svalutare la responsabilità individuale in nome di una presunta colpa collettiva, e le culture politiche che puntano a cicoscrivere sempre più rigidamente gli spazi della libertà individuale nel presupposto di una visione pessimistica dell’uomo.
Proprio per questo gli sviluppi futuri della campagna contro la pena di morte dipendono in larga misura dalla capacità di dissociare gli Usa non tanto dall’uso di uno strumento penale particolare quanto dall’assimilazione ai paesi che utilizzano quello strumento perché non conosconono o perché disprezzano la cultura della libertà individuale.

6.4.07

Ripensamenti


Fassino si è pentito per non aver salvato Moro. Violante si è pentito per aver massacrato Craxi. Ecco perché il testamento biologico non è una buona idea.

Garante di chi? Il Grande Fratello di Prodi contro los Amerikanos


Spento il fax di Palazzo Chigi, entra in scena il Garante per le Comunicazioni. L’obiettivo è lo stesso: impedire a Tronchetti Provera di farsi gli affari suoi, rientrando dal debito enorme contratto al momento dell’acquisto e mai sanato, e garantire al giro di banche che affiancano il presidente del Consiglio di mantenere il controllo su una società- la più grande azienda italiana, quasi centomila dipendenti - la cui proprietà è privata ma i cui favori sono sempre stati pubblici (nel senso del potere). Non voglio entrare nel merito della batracomiomachia che impegna campioni della finanza abituati da sempre alle logiche feudali di un sistema economico lontano anni luce dall’idea di mercato che ne hanno i liberali (destinati, come nel poema satirico di Leopardi, a fare sempre una brutta fine) . L’Italia, lo sappiamo, resta in fondo a tutte le classifiche internazionali sulla libertà di mercato e concorrenza. Incide il fisco, poi il fisco, poi il fisco, poi il pessimo uso che l’amministrazione pubblica fa dei soldi dei contribuenti (vedi alla voce scuola, giustizia, università, infrastrutture, previdenza, assistenza sociale, famiglia, trasporti), i vincoli sindacali e corporativi al mercato del lavoro, la corruzione, la criminalità organizzata, la scarsa credibilità del sistema bancario, l’eccesso di regolamentazione, il debito pubblico accumulato negli anni del consociativismo.
E’ così che nel 2006 siamo finiti al posto n. 42 nel mondo nell’indice redatto ogni anno dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, con la prospettiva di scendere ancora più in basso nell’anno in corso per l’ulteriore aumento della pressione fiscale e dei cento e passa aggravi contributivi e burocratici imposti dal Governo Prodi. Che si fa bello, per giunta, del successo della lotta all’evasione fiscale sebbene il condonatore Tremonti avesse recuperato nel 2005 ben 2,6 miliardi di euro in più di quanto abbia fatto il vampiro Visco nel 2006 (19, 4 contro 16,8).
Telecom, Mediobanca, Intesa, Capitalia sono declinazioni di quell’ intreccio fra poteri politici ed economici che ben conosciamo e che appartiene alla degenerazione dello statalismo italiano in capitalismo di rapina. Qualcosa di simile è successo nella Russia postsovietica. Ma, dato che non ci vogliamo far mancare nulla, ecco che il Governo Prodi butta nella mischia anche i poteri istituzionali.

***

Cominciò Angelo Rovati, alias del Presidente del Consiglio ed esperto nella raccolta di fondi elettorali. In una luminosa mattina di settembre dell’anno scorso, che per puro caso veniva appresso alla fatidica notte della passeggiata del portavoce Sircana nei labirinti dell’eros, si scoprì che Rovati aveva messo nero su bianco l’intimazione a Tronchetti Provera di cedere la rete fissa allo Stato, pena la condanna a sprofondare sotto il peso dei debiti e – udite udite!– a cadere vittima dei provvedimenti dell’Autorità per le comunicazioni. E per farsi meglio intendere l’alias aveva apposto sul fax lo stemma di palazzo Chigi. Scandalo, dimissioni, prima rifiutate poi concesse a denti stretti. Di Rovati, non del Garante, incautamente tirato in ballo dall’alias di Prodi. Dal Garante solo silenzio, non una protesta per essere stato usato in un’operazione così spudorata, e per l’offesa recata alla sua indipendenza garantita dalla legge.
Ed ecco che ieri a sorpresa il Garante si inserisce nello scontro fra Governo e Tronchetti Provera, che ha deciso fra le proteste delle banche di liquidare il presidente Guido Rossi, per offrire un sostegno non richiesto (o sì?) al giro di Prodi. Dice Calabrò: “Finora abbiamo lavorato bene con Guido Rossi sulla separazione della rete dai servizi, ma se dovesse mutare l’attuale clima di collaborazione segnaleremo al Governo la necessità di avere poteri più incisivi per imporre la separazione funzionale della rete”.
Parole gravi, inopportune, visto lo scontro in atto, e inappropriate al ruolo di un’Autorità super partes.
Non è in discussione se la separazione della rete fissa sia cosa buona o no per assicurare ai concorrenti un accesso più trasparente. Se lo è, del resto, non si capisce come mai fino a questo momento sia stata tollerata una situazione diversa e perché il garante non sia intervenuto per ripristinare le regole violate. Il problema è che oggi Calabrò si rivolge al Governo chiedendogli di fatto di emanare un decreto legge per modificare e rafforzare i poteri dell’Autorità. Un disegno di legge infatti sarebbe del tutto inutile, al fine di bloccare l’acquisizione dell’azienda da parte di AT&T e America Movìl, visti i tempi lunghi della discussione parlamentare. Calabrò chiede a Prodi ciò che Prodi, se non fosse rispettoso della separazione dei poteri (ma si può dubitarne?) chiederebbe a Calabrò di chiedere a Prodi: uno strumento d’urgenza, sottratto al controllo parlamentare, che affidi all’Autorità il compito di realizzare ciò che Palazzo Chigi direttamente non può fare, una volta fallito il blitz di Rovati. Ha proprio ragione il costituzionalista Sergio Fois: le Autorità rischiano di diventare un potere autoritario, irresponsabile e privo di qualsiasi legittimazione democratica.

***

Il sogno dell’antico presidente dell’Iri, oggi presidente del consiglio, resta infatti quello che si celava dietro al piano Rovati: dare vita all’Istituto Reti Italiane (acronimo IRI, come ipotizzato sarcasticamente da Alberto Mingardi), accorpando Terna, Sna e Telefoni in quello che Oscar Giannino ha definito il disegno di “grande fratello” prodiano. Progetto cui Massimo D’Alema offre, attraverso il presidente della sua Fondazione ‘Italianieuropei’, Carlo Padoan, la necessaria copertura ideologica in chiave antiamericana: “E’ una questione di sicurezza nazionale. E’ illusorio che il mercato possa risolvere da solo questi problemi”.
E come no! Abbiamo paura di essere intercettati? Affidiamoci allo Stato!